Nel variegato universo dei vitigni italiani un’uva come l’Asprinio di Aversa costituisce sicuramente uno dei casi più singolari.
Leggete, qui, quello che scrivono a riguardo, nella sezione dell’assessorato all’Agricoltora del sito Internet della Regione Campania: “ avete mai visto viti che si arrampicano, “maritate” al pioppo, verso il cielo fino a raggiungere i 15 metri di altezza, fornendo delle imponenti barriere verdi, cariche di grappoli? Uve che per essere raccolte impongono ai viticoltori equilibrismi incredibili su altissime scale?
Viti, inoltre, franche di piede, come in era pre-fillosserica ? Queste sono alcune delle caratteristiche che rendono unico, ineguagliabile l’Asprinio di Aversa”. L’area di produzione include 22 comuni, posti nelle province di Caserta e di Napoli.
Quasi sette anni così ne parlava il giornalista napoletano Luciano Pignataro sul suo sito, “uno dei bianchi campani più famosi è in estinzione: l’Asprinio d’Aversa. Strano destino mentre impera la moda del crudo di pesce in stile nippo-vesuviano dove l’abbinamento d’obbligo sarebbe proprio questo bianco di cui Soldati e Veronelli cantarono il colore verdolino, l’agrumato, la grandissima freschezza e la capacità di spumantizzarlo. Per non parlare poi della mozzarella di bufala, suo alter ego naturale.
Attualmente della doc Aversa sono in circolazione poco più di 300.000 bottiglie, una goccia di fronte ai dieci milioni della Falanghina, ai due milioni di Fiano, ai tre di Greco”.
Ora io non ho possibilità di sapere se la situazione sia migliorata, se i numeri siano cambiati, ma ho la sensazione che quel malaugurato rischio di estinzione sia per fortuna scongiurato e che sia almeno costante il numero di aziende che onorano questo vitigno unico e inimitabile ottenuto con un sistema di allevamento risalente agli Etruschi che in Italia è stato utilizzato in passato anche in altre regioni del Centro-Sud, quali la Toscana, l’Umbria e il Lazio.
Da qualche anno si sa qualcosa di più sull’origine del vino, anche se sull’Asprinio “non vi è una dettagliata storia e diverse sono le interpretazioni sulla provenienza di tale vitigno. Alcuni studiosi pensano che la provenienza dell’Asprinio sia la Grecia, mentre altri ritengono che tale vitigno fosse preesistente, in virtù del metodo etrusco scelto per coltivarlo.
Recenti studi sul DNA, condotti dal prof Scienza, hanno rivelato uno stretto apparentamento con il greco di tufo”.
Quello che è stupefacente, e fa sì che anche a livello legislativo sia previsto che “in etichetta potrà figurare la dicitura “da vigneti ad alberata” o “alberata” solo se le uve provengono esclusivamente da vigneti allevati con tale forma di allevamento, tradizionale per la zona”, è, come già accennato sopra, la forma di allevamento, le alberate aversane, così descritte da Amadeo Maiuri in Passeggiate Campane: “sono i campi delle viti eccelsi di Plinio, materialmente abbracciate agli alti pioppi, i campi delle uve più feconde di mosto e del vino arbustivo (come era un tempo chiamato dagli intenditori), come se da quella stretta tenace a quei tronchi gravi e sostenuti, un poco di ligneo umore potesse calare nel succo del vino”.
Mario Soldati in Vino al vino sottolineava invece l’assoluta particolarità organolettica: “non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio: nessuno. …L’Asprinio profuma appena, e quasi di limone: ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non si può immaginare se non lo si gusta…Che grande piccolo vino!”.
Le caratteristiche fisiologiche del vitigno Asprinio, coltivato solo nella zona aversana, ne fanno, oltre ad un vino “allegro, leggero, brioso” (parola di Luigi Veronelli), uno spumante elegante, eccezionalmente buono, molto ricercato per la sua naturale freschezza”.
Spumante si è detto, e uno dei modi più intelligenti di onorare le qualità dell’Asprinio aversano è non accontentarsi di vinificarlo come un vino bianco fermo, ma di provare a ricamarci sopra in versione… “bollicine”. Questo anche se non esiste in Campania una vera e proprio tradizione spumantistica. Non sono molte, di questo sono certo, le aziende che producono Asprinio di Aversa, lo ricordiamo, Denominazione di origine controllata dal 1993, e meno ancora quelle che elaborano charmat o metodo classico, ma so, per conoscenza ed esperienza diretta, che una delle più importanti e centrali nello sviluppo di una sensibilità spumantistica sull’Asprinio è la Grotta del Sole di Quarto, nel cuore dei Campi Flegrei, proprietà della famiglia Martusciello.
Magnifico, intrigante il colore, un paglierino metallico traslucido super luminoso e pieno di riflessi e abbastanza neutro (non cercate grandi bouquet e scoppiettanti aromatiche cromie!) il naso, però affilato, secchissimo, di nerbo “viperino” e tagliente precisione, con sottili aromi di fiori bianchi e agrumi ed una nota precisa tra il sulfureo e la pietra focaia.
La sua leggendaria, paradigmatica “secchezza totale” emerge subito sin dal primo sorso, diritto, scattante, verticale senza cedimenti e compiacenze, essenziale, petroso, nervoso al limite dell’ossuto, in continua tensione, ma con una freschezza, garantita da un’acidità ben sostenuta, quasi irreale, con un “sale” che insieme a nitide note di mandorla va a costituire il sapore del vino e ne scandisce il ritmo ben cadenzato.
Leggete, qui, quello che scrivono a riguardo, nella sezione dell’assessorato all’Agricoltora del sito Internet della Regione Campania: “ avete mai visto viti che si arrampicano, “maritate” al pioppo, verso il cielo fino a raggiungere i 15 metri di altezza, fornendo delle imponenti barriere verdi, cariche di grappoli? Uve che per essere raccolte impongono ai viticoltori equilibrismi incredibili su altissime scale?
Viti, inoltre, franche di piede, come in era pre-fillosserica ? Queste sono alcune delle caratteristiche che rendono unico, ineguagliabile l’Asprinio di Aversa”. L’area di produzione include 22 comuni, posti nelle province di Caserta e di Napoli.
Quasi sette anni così ne parlava il giornalista napoletano Luciano Pignataro sul suo sito, “uno dei bianchi campani più famosi è in estinzione: l’Asprinio d’Aversa. Strano destino mentre impera la moda del crudo di pesce in stile nippo-vesuviano dove l’abbinamento d’obbligo sarebbe proprio questo bianco di cui Soldati e Veronelli cantarono il colore verdolino, l’agrumato, la grandissima freschezza e la capacità di spumantizzarlo. Per non parlare poi della mozzarella di bufala, suo alter ego naturale.
Attualmente della doc Aversa sono in circolazione poco più di 300.000 bottiglie, una goccia di fronte ai dieci milioni della Falanghina, ai due milioni di Fiano, ai tre di Greco”.
Ora io non ho possibilità di sapere se la situazione sia migliorata, se i numeri siano cambiati, ma ho la sensazione che quel malaugurato rischio di estinzione sia per fortuna scongiurato e che sia almeno costante il numero di aziende che onorano questo vitigno unico e inimitabile ottenuto con un sistema di allevamento risalente agli Etruschi che in Italia è stato utilizzato in passato anche in altre regioni del Centro-Sud, quali la Toscana, l’Umbria e il Lazio.
Da qualche anno si sa qualcosa di più sull’origine del vino, anche se sull’Asprinio “non vi è una dettagliata storia e diverse sono le interpretazioni sulla provenienza di tale vitigno. Alcuni studiosi pensano che la provenienza dell’Asprinio sia la Grecia, mentre altri ritengono che tale vitigno fosse preesistente, in virtù del metodo etrusco scelto per coltivarlo.
Recenti studi sul DNA, condotti dal prof Scienza, hanno rivelato uno stretto apparentamento con il greco di tufo”.
Quello che è stupefacente, e fa sì che anche a livello legislativo sia previsto che “in etichetta potrà figurare la dicitura “da vigneti ad alberata” o “alberata” solo se le uve provengono esclusivamente da vigneti allevati con tale forma di allevamento, tradizionale per la zona”, è, come già accennato sopra, la forma di allevamento, le alberate aversane, così descritte da Amadeo Maiuri in Passeggiate Campane: “sono i campi delle viti eccelsi di Plinio, materialmente abbracciate agli alti pioppi, i campi delle uve più feconde di mosto e del vino arbustivo (come era un tempo chiamato dagli intenditori), come se da quella stretta tenace a quei tronchi gravi e sostenuti, un poco di ligneo umore potesse calare nel succo del vino”.
Mario Soldati in Vino al vino sottolineava invece l’assoluta particolarità organolettica: “non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’Asprinio: nessuno. …L’Asprinio profuma appena, e quasi di limone: ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non si può immaginare se non lo si gusta…Che grande piccolo vino!”.
Le caratteristiche fisiologiche del vitigno Asprinio, coltivato solo nella zona aversana, ne fanno, oltre ad un vino “allegro, leggero, brioso” (parola di Luigi Veronelli), uno spumante elegante, eccezionalmente buono, molto ricercato per la sua naturale freschezza”.
Spumante si è detto, e uno dei modi più intelligenti di onorare le qualità dell’Asprinio aversano è non accontentarsi di vinificarlo come un vino bianco fermo, ma di provare a ricamarci sopra in versione… “bollicine”. Questo anche se non esiste in Campania una vera e proprio tradizione spumantistica. Non sono molte, di questo sono certo, le aziende che producono Asprinio di Aversa, lo ricordiamo, Denominazione di origine controllata dal 1993, e meno ancora quelle che elaborano charmat o metodo classico, ma so, per conoscenza ed esperienza diretta, che una delle più importanti e centrali nello sviluppo di una sensibilità spumantistica sull’Asprinio è la Grotta del Sole di Quarto, nel cuore dei Campi Flegrei, proprietà della famiglia Martusciello.
Magnifico, intrigante il colore, un paglierino metallico traslucido super luminoso e pieno di riflessi e abbastanza neutro (non cercate grandi bouquet e scoppiettanti aromatiche cromie!) il naso, però affilato, secchissimo, di nerbo “viperino” e tagliente precisione, con sottili aromi di fiori bianchi e agrumi ed una nota precisa tra il sulfureo e la pietra focaia.
La sua leggendaria, paradigmatica “secchezza totale” emerge subito sin dal primo sorso, diritto, scattante, verticale senza cedimenti e compiacenze, essenziale, petroso, nervoso al limite dell’ossuto, in continua tensione, ma con una freschezza, garantita da un’acidità ben sostenuta, quasi irreale, con un “sale” che insieme a nitide note di mandorla va a costituire il sapore del vino e ne scandisce il ritmo ben cadenzato.
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