La Sicilia, per condizioni climatiche, temperatura mite, terre collinose, leggera brezza di mare e sole acceso, ricorda i territori della California e dell'Australia.

Queste qualità risultano ideali e rendono la Sicilia l'isola del vino.
In effetti, la Sicilia testimonia con i suoi vini la secolare vocazione viti-vinicoltura che affonda le proprie radici già in età Greca, allorché si diede origine a quel binomio, Sicilia e Vini, ormai noto il tutto il mondo.

I vini presenti sul territorio siracusano abbracciano un circuito di cultura, mito e storia che caratterizzano ciascuno dei prodotti enologici citati in precedenza.

I metodi di lavorazione, di fermentazione e d’ imbottigliamento sono differenti per ciascun prodotto poiché differenziati da odori, profumi e colori tipici del vigneto d’appartenenza.

Anche le caratteristiche fisiche, nonché di sapori e profumi sono diversi per ciascun vino, lasciando al consumatore la possibilità non solo di scegliere ma anche di godere di tutte le caratteristiche del prodotto.

siracusa Grappolo_al_sole

Grazie alle caratteristiche di ciascun prodotto, nonché alla grandissima varietà di scelta per ciascuna tipologia di vino ( bianco, rosato, rosso), ci si può sbizzarrire e divertire mischiandoli e incrociandoli, toccando le papille gustative più raffinate e invitando i palati più esigenti. La storia del vino è un po' la storia stessa dell'umanità. Ogni civiltà, impero, vicenda politica e di potere ha avuto le proprie storie di vino, più o meno legate agli eventi stessi che hanno delineato il corso della storia.

Nella zona di Siracusa, la coltivazione della vite è stata per lungo periodo l'attività agricola prevalente ed ha dato vita ad una rilevante tradizione vitivinicola. La provincia si caratterizza per alcune produzioni di eccellenza, basate su vitigni autoctoni e non, che si possono fregiare dei marchi di origine DOC o IGT.

Il Moscato di Siracusa.

È un vino di colore giallo oro, rotondo ed armonico, con un'impronta serena e delicata come una melodia che mette subito di buon umore. Il Moscato di Noto è una variante nata poco più di mezzo secolo fa nella Cantina Sperimentale di Noto, allo scopo di ottenere un vino fine e profumato che potesse essere gustato giovane, senza la necessità di un lungo invecchiamento. Prodotti in quantità limitate, come si addice ad una gemma preziosa, questi vini di singolare bellezza - indubbiamente tra i più bei moscati d'Italia - onorano l'enologia siciliana.

Il Moscato di Siracusa secondo il celebre storiografo ed enologo Saverio Landolina Nava (1743-1814) sarebbe identificabile con l'antico Pollio siracusano, ottenuto dall'uva Biblia (dai monti Biblini, in Tracia), che fu introdotta a Siracusa da Pollis, mitico tiranno della città. Se così fosse, le sue origini risalirebbero al VIII-VII secolo a.C., e il Moscato di Siracusa potrebbe essere considerato il vino più antico d'Italia. Ancora oggi, seppur in quantità ridotte, questo vino viene prodotto nel territorio comunale di Siracusa con uve di Moscato Bianco sottoposte a un leggero appassimento.

Il Nero d'Avola.

È il più grande vitigno a bacca rossa della Sicilia e viene coltivato in una vasta fascia che taglia a metà l'isola, dalla costa tirrenica di Casteldaccia e Cefalù, a est di Palermo, fino a quella del canale di Sicilia fra Marina di Ragusa, Pachino e Noto. La viticoltura nell'area del Nero d'Avola ha radici antichissime, risalenti fino al V secolo a.C.
Questo vino, nelle sue varie versioni, è destinato a grande invecchiamento. Le bottiglie devono essere conservate orizzontali e stappate qualche ora prima del consumo, meglio se fatte decantare in caraffa.

Il BachYnum di Pachino.

Il vino nero dell’antica tradizione di Pachino è detto anche il “quarantottore”,
Pachino ha svolto per parecchi anni il ruolo di centro di produzione di mosti e vini prevalentemente impiegati per il taglio di vini più blasonati, acquistati dal nord d'Italia o dalla Francia in grandi quantitativi. Interi bastimenti venivano riempiti presso il vicino porticciolo di Marzamemi per poi prendere il largo verso i porti di Livorno o Genova, e poi proseguire verso il Piemonte ed oltre.

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Il Frappato.

Il Frappato è un vitigno a bacca rossa presente in tutta la Sicilia ma essenzialmente nella provincia di Siracusa e in quella di Ragusa.

Il vitigno è molto antico e le prime notizie certe lo fanno risalire al XVIII secolo. La sua origine non è nota e sembra possa non essere un vitigno autoctono ma proveniente dalla penisola iberica. Ne esistono due varietà molto simili con grappoli piuttosto allungati e con acini molto ravvicinati di colore rosso intenso tendente al violetto. Questa caratteristica ha un aspetto negativo in quanto quando l'uva è matura gli acini si pressano a vicenda provocando la spaccatura di alcuni di essi. Questo provoca la formazione di muffe ed un inquinamento del prodotto.

Ma anche vinificato in purezza, il Frappato è un vino suadente dal profumo intenso e delicato e dal sapore fresco ma ben strutturato. La sua presenza nel Suber aggiunge un aroma di pesca gialla e una nota gustativa leggermente tannica.

Altre notizie provengono dal primo novecento, presumendo un'origine spagnola dove sono presenti due varietà similari. Di certo si sa che era presente nella Sicilia orientale già dal XVII secolo, con il nome di Frappato dal significato di “fruttato”.

Eloro.

L'Eloro è un vino a Denominazione di Origine Controllata (DOC) riservata a vini prodotti nella Provincia di Siracusa precisamente nei comuni di: Noto, Pachino, Portopalo di Capo Passero, Rosolini e nel comune di Ispica della Provincia di Ragusa

I vini ammessi alla DOC sono i seguenti:

·         Eloro rosato

·         Eloro rosso

·         Eloro Nero d'Avola

·         Eloro Frappato

·         Eloro Pignatello

·         Eloro Pachino

·         Eloro Pachino riserva

Albanello.

Citato nel 1700 per le qualità del vino omonimo costituisce uno dei vitigni storici coltivati in provincia di Siracusa.

La coltivazione è limitata alla provincia di Siracusa, dove si è andata notevolmente riducendo a pochissimi esemplari, ceppi sparsi sono presenti anche nei vigneti ragusani.
La pianta è di media vigoria, foglia medio-grande, grappolo medio, cilindro-conico, leggermente spargolo, talvolta alato, acini medi, sferoidali o ovoidali, con ombelico evidente, buccia mediamente pruinosa, spessa e consistente, di colore giallo chiaro tendente al verdolino, dorata nella parte esposta al sole, polpa molto dolce. Maturazione media.
Generalmente viene vinificato insieme ad altre uve. Il vino è particolarmente fine, di colore giallo paglierino carico, dotato di ricco corredo aromatico e buona struttura gustativa.

Il Moscato di Noto.

è una variante de Moscato di siracusa, oggi riconosciuto come vino doc.

Il Moscato di Noto è frutto del lavoro di tanti viticoltori che non hanno voluto dimenticare secoli di storia continuando caparbiamente a coltivare il vitigno che ne è la base. Elorina ne ha raccolto e valorizzato l’impegno vinificando le loro uve e producendo un vino dolce e morbido, caldo e avvolgente.

La leggenda narra che il nome delle uve, da cui si produce il Moscato, trae origine da quanto accadde ad un dei servi della gleba di Falaride, tiranno in Sicilia, il quale era stato messo dal suo padrone a guardia di certe uve dai grappoli succosi dolcissimi di cui andava ghiotta la figlia cieca del tiranno. Il poveretto aveva l’incarico di passare per i vigneti con una verga per scacciare le mosche. Un giorno, stremato dalla calura e dalla stanchezza, il servo si appisolò e al suo risveglio scoprì che gli acini erano stati tutti punti dagli insetti. La figlia del tiranno trovò che quell’uva era di gran lunga migliore del solito così spiegò che il sonno era stato voluto dalla dea Demetra , affinché le api addolcissero la sua uva lasciando su ogni acino un segno per poterla riconoscere. Al di là della legenda, studi condotti dall’archeologo dott. Santocono Russo sulle ceramiche e sui vasi potori ritrovati nella grotta di Sbirulia , a pochi chilometri da Noto, hanno portato alla conclusione che nella zona il vino fosse già conosciuto circa 200 anni prima di Cristo.
Il Dalmasso ricorda nella "Storia della vite e del vino d’Italia" che i moscati hanno origini remotissime e provengono sicuramente (Gallesio) dal bacino orientale del Mediterraneo. Essi sono comunque da identificare con l’Apicia o Apianae di Catone, così chiamate per indicarne la predilezione da parte delle api. Da tanto culto per il vino ed i vini dolci in particolare e dalla geniale sensibilità enologica del dott. Montoneri – direttore della Cantina Sperimentale di Noto dal 1902-1943 - nasce all’inizio del novecento il Moscato di Noto. All’inizio degli anni settanta la stessa Cantina, si fece portavoce degli interessi e della volontà dei produttori ed elaborò il disciplinare di produzione della D.O.C. Moscato di Noto approvato il 14 Marzo 1974.

La tradizione vitiinicola dell'area sud orientale della Sicilia è ben viva nella memoria della gente del luogo. Qui la coltivazione della vite è stata per lungo periodo l'attività agricola prevalente. La coltivazione del nero d'avola ad alberello è lunga e faticosa, e fino a pochi decenni fa veniva svolta manualmente, con solo l'ausilio di un mulo per svangare la terra o per trasportare le botti di vino dal palmento alle rivendite. Pachino ha svolto per parecchi anni il ruolo di centro di produzione di mosti e vini prevalentemente impiegati per il taglio di vini più blasonati, acquistati dal nord d'Italia o dalla Francia in grandi quantitativi. Interi bastimenti venivano riempiti presso il vicino porticciolo di Marzamemi per poi prendere il largo verso i porti di Livorno o Genova, e poi proseguire verso il Piemonte ed oltre.

La zona è oggi al centro di un grande itneresse e di valorizzazione sotto il profilo commerciale, grazie a caratteristiche pedoclimatiche tali da permettere di ottenre vini di grande pregio, corpo estruttura, basati prevalentemente silla coltivazione di vitigni quali il "Nero d'Avola" o Calabrese, e il Moscato bianco.

Il percorso principale, prevede una serie di percorsi secondari attraverso le aree vitate di maggiore elezione, attraverso le quali è possibile raggiungere le aziende produttrici.

Si parte da Siracusa per assaporare il gustosissimo Moscato di Siracusa e Noto vini assolutamente classici, di colore giallo oro, rotondi ed armonici, hanno un impronta serena e delicata come una melodia e mettono subito di buon umore. Il Moscato di Noto è nato poco più di mezzo secolo fa nella Cantina Sperimentale di Noto, comune afferente alla provincia di Siracusa, allo scopo di ottenere un vino che potesse essere gustato giovane, senza la necessità di un lungo invecchiamento, fine e profumato.

Prodotto in quantità limitate, come si addice ad una gemma preziosa, questo vino di singolare bellezza - indubbiamente tra i più bei moscati d'Italia - onora l'enologia siciliana. Si prosegue alla volta del pregiato Nero d'Avola DOC La viticoltura nell'area del Nero d'Avola ha radici antichissime. Esistevano vigneti già nel V secolo a.C., e le prime notizie certe sull'esistenza del sito chiamato oggi Regaleali risalgono al Medioevo, quando su alcuni documenti compaiono riferimenti alla località Racaliali. Il Nero d'Avola è il più grande vitigno a bacca rossa di tutta la Sicilia, esteso in una vasta fascia che taglia a metà l'isola, dalla costa tirrenica di Casteldaccia e Cefalù, a est di Palermo, fino a quella del canale di Sicilia fra Marina di Ragusa, Pachino e Noto. La parte più importante agli effetti della produzione di questo vino è quella settentrionale e s'identifica con il nome di due aziende di grande storia, la Regaleali di Vallelunga, presso Caltanisetta, e la Duca di Salaparuta a Casteldaccia. Il Nero d'Avola, nelle sue varie versioni, è destinato a grande invecchiamento. Le bottiglie devono essere conservate orizzontali e stappate qualche ora prima del consumo, meglio se fatte decantare in caraffa.

Dopo avere assaporato l'emozione del vino avolese si arriva al vino di Pachino È il “quarantottore”, il vino nero di dell’antica tradizione di Pachino, proprio per la permanenza nelle vasche di fermentazione con le bucce per 48 ore, il nome BachYnum vuole riprendere l’antico modo con cui i contadini di Pachino chiamavano il paese. Il nostro vino, BachYnum, ha in se una cultura storica senza la quale esso non potrebbe essere ciò che è, e considerarlo alla stregua di una semplice bevanda industriale equivale a defraudarlo della propria essenza. Vogliamo quindi proporre e difendere il nostro vino come prodotto agricolo culturale nella sua unicità, contro la massificazione di un mercato sempre più globalizzato. Chi ama il vino è consapevole che ogni annata porta con se la propria particolarità. Il vino va capito e consumato non come prodotto sempre uguale, in quanto mai uguali sono le condizioni climatiche che influiscono sul territorio e sul lavoro dell’uomo.

La degustazione del nostro vino è opportuno che avvenga tenendo presenti le peculiarità che intendiamo offrire. Infine iil viaggio culmina nella zona di Eloro. Eloro DOC prende il nome dalla cittadina di Eloro, in provincia di Siracusa. La cittadina, sito archeologico molto importante che testimonia il dominio greco, produceva un vino pregiato detto Pollio. Il vino viene prodotto nelle tipologie rosso, bianco e rosato. Tutti prevedono la fermentazione del mosto a contatto con la vinaccia ed ha una durata variabile: da 2 a 3 giorni per i vini rossi giovani, oltre i 15 giorni per quelli di grande struttura, destinati a un invecchiamento più o meno lungo. Seguono la fase della svinatura, con la separazione della vinaccia dal mosto, i travasi, l’affinamento e l’invecchiamento. Al termine di questo periodo, che può essere anche molto prolungato, i vini vengono stabilizzati e, infine, imbottigliati. In particolare, l’Eloro DOC Rosato, prevede la rottura dell’acino e non dei raspi (pressatura soffice) e successivamente il mosto viene messo nei fermentini, dove subisce una breve macerazione e una modesta solfitazione.

vino moscato siracusa

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Il Recioto di Gambellara è un vino DOCG la cui produzione è consentita nella fascia limitrofa ad ovest della provincia di Vicenza

Del Recioto non sono incerte solo le origini, ma pure il nome: alcuni lo fanno risalire la passito denominato Reticio menzionato sia da Virgilio che da Plinio il Vecchio. Non è da escludere neppure la radice latina Racemus, grappolo, visto che nel Medio Evo è frequente indicare con Recis i grappoli spiccati dalla vite ed appesi ad asciugare per la conservazione. Altra ipotesi è che il termine Recioto derivi da quello veneto "recia", che significa orecchio, e con il quale si fa riferimento alla parte più alta del grappolo, ovvero quella contenente il succo migliore.(Disciplinare di produzione).

reciotodigambellaraclassico Recioto di Gambellara Classico - Consorzio per la Tutela della Doc dei Vini Gambellara

recioto Grappolo di Garganega (foto http://isolafelice.forumcommunity.net)

Vitigni - Grado alcolometrico minimo - Invecchiamento e qualifiche.

I vini a denominazione di origine controllata e garantita “Recioto di Gambellara Classico” devono essere ottenuti dalle uve provenienti dal vitigno Garganega per almeno l’80% e per il rimanente da uve dei vitigni Pinot Bianco, Chardonnay e Trebbiano di Soave (nostrano) fino ad un massimo del 20%. La Garganega è il vitigno autoctono e antichissimo delle colline di Gambellara, ed il più importante della provincia di Vicenza.

L’appassimento delle uve può essere condotto anche con l’ausilio di impianti di condizionamento ambientale, purchè operanti a temperature analoghe a quelle riscontrabili nel corso dei processi tradizionali di appassimento.
Il vino “Recioto Spumante di Gambellara Classico” deve essere ottenuto con mosti e/o vini che rispondono alle condizioni stabilite dal disciplinare la spumantizzazione deve avvenire con fermentazione naturale.
“Recioto di Gambellara Classico”:

- titolo alcolometrico vol. totale minimo: 14,5% vol. di cui almeno 11,5% in alcool effettivo svolto;
- acidità totale minima: 4,5 per mille;
- estratto minimo non riduttore: 22 g/l;
- Zuccheri riduttori residui: minimo 50 g/l.
“Recioto Spumante di Gambellara Classico”:
- Titolo alcolometrico: volumico totale minimo: 13,5% di cui almeno 11% in alcool effettivo svolto;
- Acidità totale minima: 5 per mille;
- Estratto minimo non riduttore: 18 g/l;
- Zuccheri riduttori residui:minimo 36 g/l.

Caratteristiche organolettiche.

“Recioto di Gambellara Classico”:
- colore: giallo dorato più o meno intenso con eventuali sfumature ambrate;
- odore: intenso, profumo di frutta matura con eventuali sfumature di vaniglia;
- sapore: caratteristico, armonico, con leggero gusto di passito, amabile o dolce, con leggero retrogusto amarognolo, anche vivace come da tradizione, con eventuale percezione di legno.
“Recioto Spumante di Gambellara Classico”:
- Spuma: fine e persistente;
- Colore: giallo dorato più o meno intenso;
- Odore: intenso, profumo di fruttato;
- Sapore: caratteristico, vellutato, armonico, fruttato, con leggero gusto di passito con eventuali sfumature di vaniglia, con eventuale percezione di legno.

Abbinamenti e temperatura di servizio.

Il Recioto di Gambellara si abbina bene a dolci (esclusi quelli al cioccolato), gelati, zabaione e biscotti di tutti i tipi. Temeratura di servizio 10°C.
Il Recioto Spumante di Gambellara Classico è un vino da dessert; va servito a 8°C.

I vini rossi sono degli ottimi compagni con cui passare il Natale...insieme a fagiani, stracotti, brasati, risotti, filetti, polente, pappardelle e chi più ne ha più ne metta. Vi è venuta fame, eh?

Natale: che sia un pranzo o una cena, un buffet o un pasto in famiglia alla vecchia maniera, sulla vostra tavola non possono mancare dei buoni vini, che accompagnino tutte le prelibatezze che andrete a proporre. Scegliere il vino adatto, infatti, aiuterà a esaltare ancor più le vostre ricette, in un connubio perfetto e organico.

È per questo che tutti noi, ogni anno, ci troviamo di fronte al dilemma: quali vini scegliere per accompagnare al meglio il pasto più importante dell’anno (e che quasi certamente ci è costato anche ore e ore di lavoro)?

Per il pesce, gli antipastini e le torte salate magari sceglierete un bianco o un rosso di medio corpo, ma quasi certamente ci sarà un piatto forte, che avrete la possibilità di accompagnare a un vino rosso importante.

Facciamo quindi una carrellata di alcuni tra più blasonati vini rossi italiani, insieme a qualche ricetta a cui abbinarli.

Partiamo dal Piemonte, con il grande rosso di queste zone: il Barolo.

vini

Ottenuto da uve nebbiolo, viene fatto maturare in botti o barriques per lungo tempo ed è adatto al lungo affinamento in bottiglia. Scegliete quindi un Barolo di annata non troppo recente (che risalga ad almeno 5 o 6 anni fa), in modo che il vino abbia avuto la possibilità di evolversi negli ultimi anni e acquisire non solo un corpo importante, ma anche tutte quelle note profumate che solo l’affinamento in bottiglia può regalare. Calcolate anche che un Barolo può resistere per diverse decadi, quindi se avete una bottiglia in cantina che pensate sia ormai troppo vecchia non disperate: apritela e potreste trovarvi di fronte a una graditissima sorpresa.

Il Barolo è stato definito “il re dei vini e il vino dei re” ed è pertanto adatto ad accompagnare anche ricette molto elaborate e importanti: gli stracotti, i brasati e le preparazioni a base di carne che necessitano di cotture molto lunghe sono decisamente adatti all’abbinamento. Un altro abbinamento che ha grande successo è quello con i formaggi: risultano particolarmente adatti quelli stagionati a pasta dura; scegliete comunque formaggi dai sapori decisi, tenendo conto che il tannino e il grado alcolico del vino sono ideali per pulire il vostro palato anche se scegliete sapori forti. Se volete la ciliegina sulla torta avrei un suggerimento che farà la gioia di tutti i buongustai alla vostra tavola: Barolo nel calice, Barolo nello stracotto, ma prima Barolo nel risotto…e il gioco è fatto!

barolo

Se volete un vino rosso importante, ma vi piacciono gli aromi fruttati, i vini caldi e i tannini più vellutati possibile, allora potete scegliere un Amarone. La particolarità che rende questo vino così interessante è che le uve, scelte tra quelle autoctone venete (corvina, corvinone, rondinella, oseleta e negrara), vengono sottoposte a diversi mesi di appassimento prima di essere pigiate. Questa pratica permette una concentrazione degli zuccheri e delle sostanze profumate all’interno degli acini e, di conseguenza, dà origine ad un vino dal tenore alcolico importante e dai profumi intensi e fruttati.

L’Amarone è adatto al lungo invecchiamento e all’affinamento prolungato in bottiglia, cose che gli consentono di arricchirsi di profumi tipici dell’evoluzione e di diventare un vino decisamente complesso e avvolgente. Gli abbinamenti che si possono proporre con l’Amarone sono molti, dagli stracotti alle preparazioni a base di selvaggina. Scegliete comunque ricette  importanti a base di carne rossa o nera, magari di quelle che si fanno cuocere a lungo. Potete spaziare tra un filetto di cervo arrosto, un capriolo in salmì o anche un buon tagliere di formaggi stagionati e salumi saporiti. L’abbinamento che viene in mente a me? Qualche tempo fa la famiglia Allegrini ci ha ospitati, proponendoci il brasato all’Amarone, naturalmente accompagnato dal medesimo vino…poesia!

amarone_della_Valpolicella

Se siete stati ispirati dai vini precedenti, c’è un’opzione che coniuga entrambe le filosofie. Lo Sforzato della Valtellina è prodotto da nebbiolo, anche se in questo caso si tratta di uve di territorio lombardo, sottoposto ad appassimento, come succede per le uve dell’Amarone. Il risultato è un vino di grande struttura, caratterizzato da una presenza sostanziosa di aromi fruttati e da un corpo importante; i tannini, tuttavia, sono stuzzicanti, anche se eleganti e vellutati. Questo vino si sposa molto bene con piatti importanti, specialmente quelli tipici del territorio valtellinese, quindi se avete a disposizione polenta Taragna accompagnata da cacciagione o selvaggina potete proporre l’abbinamento dei sogni). In alternativa, un classico sempreverde come un piatto di polenta gialla accompagnata da uno spezzatino o uno stracotto può essere una valida alternativa, di più semplice reperibilità!

Se amate i vini di centro Italia, invece, alcuni saranno imprescindibili sulla vostra tavola. Il Brunello di Montalcino, grande vino toscano a base di uve sangiovese, è la gioia di molti bevitori. Coniuga perfettamente struttura, profumi intensi, lunga persistenza e tannini delicati. È un vino adatto al lungo invecchiamento in bottiglia, che può essere tenuto in cantina per molto tempo. Se ne avete la possibilità e volete esagerare, quindi, visto che si tratta di Natale, scegliete un vino evoluto, che abbia anche 20 anni o di più. Per esperienza personale posso dirvi che molto probabilmente sarà ancora eccellente! Potete accompagnarlo a qualunque piatto di carne importante, oppure, se siete dei cultori delle eccellenze toscane, a un buon Pecorino stagionato. Un’ottima scelta può essere l’abbinamento con la carne di cinghiale e, se volete esagerare, potete partire già dal primo, con un buon piatto di pappardelle al ragù di cinghiale. In alternativa, si può spaziare con un fagiano alla crema. Attenzione però, perché il Brunello può avere una grande struttura, mentre per questo piatto sceglierei un’annata non eccessivamente remota, in modo che non sovrasti i sapori della ricetta.

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Sempre del centro Italia, anche se umbro, è il Sagrantino di Montefalco. Adattissimo al lungo invecchiamento, grazie ai tannini molto ruvidi, acquisisce negli anni una struttura molto importante. Gli aromi fruttati si accompagnano a sentori speziati anche pungenti e, con il passare degli anni, anche a note che ricordano profumi terziari. Gli abbinamenti consigliati sono abbastanza simili a quelli del Brunello, anche se in questo caso abbiamo un vino adatto anche ad abbinamenti più particolari, come la carne di agnello, che però è poco natalizia (ma così vi ho dato una buona idea per Pasqua). Visto che siamo a dicembre potete optare per un buon piatto di polenta con salmì di lepre.

Non può certo mancare in questo elenco un grande vino rosso del sud. Detto il “Barolo del Sud”, il Taurasi si presta agli abbinamenti importanti tanto quanto il suo cugino piemontese. Viene ottenuto dall’aglianico, vitigno tipico delle regioni centromeridionali, e il suo processo di vinificazione prevede un passaggio in legno prolungato, che gli conferisce struttura e rotondità. I tannini sono vellutati, meno pronunciati di quelli dei vini ottenuti, per esempio, dal nebbiolo. I profumi intensamente fruttati si arricchiscono di sentori speziati e, in caso di lunga evoluzione, anche di profumi eterei. È un vino complesso, che si adatta ad accompagnare non solo preparazioni importanti, ma anche piatti meno impegnativi. Potrete quindi spaziare da primi conditi con sughi di carne, a secondi di carne rossa arrosto, fino ad arrivare alla selvaggina. Se volete proporre un cult del Natale, potete preparare un tacchino ripieno al forno con castagne, è sufficiente prestare attenzione che il vino non sia troppo strutturato, magari scegliete un’annata non molto remota.

Ora avete molte idee per il vostro Natale, ma ricordate: può essere Natale tutti i giorni, specialmente con dei vini così!

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eolicoinmare_web_239822_fotowwf_national_geographic_sarah_leen1.- Tutte le bufale sulle rinnovabili.

 Le tecnologie delle energie rinnovabili non sono affatto immature, poco diffuse o troppo rischiose per gli investimenti nel medio e lungo periodo, anzi. L'utilizzo del ciclo di vita del suolo per le energie rinnovabili è la stessa o addirittura inferiore rispetto ai combustibili fossili. Anche l'energia idroelettrica può essere sostenibile, e portare benefici economici e ambientali. Le fonti rinnovabili, insieme all'efficienza energetica, sono in grado di sostituire i combustibili fossili in tutti i settori, anche in quello dei trasporti. Non è vero che le energie rinnovabili hanno bisogno di incentivi economici, possono già competere per i loro stessi meriti.

2.- Se cercate un vino dall'eleganza antica, provate il Primitivo di Manduria.

StampaLa precocità della maturazione delle uve da cui si ottiene il vino da il nome "Primitivo" a questa Doc. Prodotto tipico delle zone costiere ionico-salentine, il vitigno si è successivamente diffuso in tutta la zona delle Murge nelle province di Bari e Taranto. Alcuni documenti storici raccontano che nel XVII secolo i monaci benedettini si dedicarono alla coltura intensiva di questo vitigno, soprattutto nella zona di Gioia del Colle, area in cui il clima era particolarmente favorevole alla coltura del Primitivo. Il vino ebbe un grandissimo successo tanto che nel XIX secolo la coltivazione venne introdotta anche nel territorio di Taranto. Oggi il vino Primitivo viene prodotto non solo nelle aree della Doc, ma anche in tutto il territorio delle province di Taranto, Bari, Brindisi e Lecce, nelle versioni da pasto e Dolce naturale, Liquoroso secco e Liquoroso dolce naturale, adatte per il fine pasto.

3.- Recioto della Valpolicella un vino dolce di grande struttura ed entusiasmanti aromi.

ReciotoValpolicellaIl Recioto della Valpolicella è generalmente prodotto nella stagione invernale, al termine dell'appassimento delle uve. La fermentazione è piuttosto lunga e può avere una durata anche di oltre 30 giorni, periodo durante il quale il mosto è lasciato in contatto con le bucce, conferendo colore, aromi e struttura. Sarà la fermentazione a stabilire se il mosto diventerà Recioto oppure Amarone. Quando la fermentazione è svolta completamente si ottiene l'Amarone, mentre nel caso in cui si conservi un residuo zuccherino, in genere non oltre il 12%, si ottiene il Recioto. La maturazione del Recioto è svolta in botte, le quali dimensioni e caratteristiche sono scelte dal produttore in accordo al risultato che si vuole ottenere.

4.- Vino Santo Trentino, passito e passione.

TransientNon si sa con certezza quando sia nato il Vino Santo trentino, tuttavia a guardare l’attaccamento con cui ancor oggi i vignaioli della Valle dei Laghi coltivano la vite in campi strappati alla montagna, incastonati fra le rocce e l’orgoglio con cui conservano cimeli, ricordi e vecchie bottiglie che raccontano la storia di questo passito, si ha la netta impressione che esso sia un’eredità orgogliosamente difesa e intensamente partecipata: il Vino Santo può essere considerato un ”vino corale”, un patrimonio di esperienze cui generazioni e generazioni di vignaioli hanno dato il loro contributo. Le prime testimonianze storiche di questa tradizione risalgono al Cinquecento, quando cominciano ad essere citati dei vini bianchi dolci, veri e propri progenitori del Vino Santo.

5.- Proprietà del miele: le mille virtù.

miele2Le proprietà del miele: è uno degli alimenti le cui proprietà salutari sono già note da migliaia di anni. Proprietà di cui, del resto, è particolarmente ricco. Infatti il miele viene usato in moltissimi contesti e da moltissimo tempo con risultati più che soddisfacenti

Per millenni è stato l'unico dolcificante di cui l'uomo ha potuto disporre e ad esso è sempre stata accordata enorme importanza tanto da venire considerato, dalla mitologia greca e romana "cibo degli dei". Vediamo in seguito le mille proprietà di questo favoloso alimento.

6.- Vini e Vitigni di Romagna, la sfida degli autoctoni.

albanadiromagnaL’argomento dei vitigni autoctoni è disciplinato dalla Legge n. 82 del 20 febbraio 2006 ‘Disposizioni di attuazione della normativa comunitaria concernente l’organizzazione comune di mercato (OCM) del vino’ pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 13 marzo 2006 - Supplemento ordinario n. 59; a integrazione delle definizioni previste dall’articolo 1, paragrafi 2 e 3, e dall’allegato I del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, che stabilisce le definizioni dei prodotti nazionali. Dalla legge si evince che “È definito ‘vitigno autoctono italiano’ il vitigno la cui presenza è rilevata in aree geografiche delimitate del territorio nazionale”. E sono le Regioni (e le province autonome di Trento e di Bolzano) ad accertare la coltivazione di vitigni autoctoni italiani sul territorio di competenza.

7.- Il pesco è probabilmente originario della Cina dove lo si può ancora rinvenire allo stato selvatico.

pesco fioreIl pesco è probabilmente originario della Cina (secondo alcuni del Medio Oriente - Persia), dove lo si può ancora rinvenire allo stato selvatico. L'introduzione del pesco in Europa viene da alcuni attribuita ad Alessandro Magno a seguito delle sue spedizioni contro i Persiani, secondo altri i Greci lo avrebbero introdotto dall'Egitto. Viene coltivato in molti Stati nelle zone con clima temperato mite. A livello mondiale i maggiori produttori sono gli Stati Uniti, seguiti dall'Italia, Spagna, Grecia, Cina, Francia e Argentina. In Italia le regioni maggiori produttrici sono l'Emilia-Romagna (circa 1/3 della produzione), Campania (1/4), Veneto e Lazio. I primi pescheti specializzati in Italia risalgono alla fine dell'800 e sono stati realizzati in provincia di Ravenna.

8.- La ciliegia si coltiva in numerose regioni sin dall’epoca preistorica.

CiliegieLa ciliegia nasce sul ciliegio (Prenus avium), un albero che può arrivare fino a 20 metri di altezza (anche se i coltivatori, per agevolare la raccolta, lo mantengono ad un altezza inferiore) che in primavera si copre di bellissimi fiori bianchi. I frutti si presentano a forma arrotondata, carnosi e succosi, con la buccia liscia: sono attaccati a lunghi e fini peduncoli attaccati a gruppi sulla corteccia. La ciliegia al suo interno contiene un nocciolo color legno e duro. La pianta del ciliegio si divide in due specie distinte: a frutto dolce e a frutto acido.
Il ciliegio dolce da due tipi di frutti diversi: le ciliegie duracine e le ciliegie tenerine: le ciliegie duracine (duroni) hanno polpa croccante e dura con colore rosso nerastro o bianco, mentre le ciliegie tenerine hanno polpa succosa e morbida dal colore nero o rosso.

9.- I cavoli coltivati sono varietà derivate dal cavolo selvatico che cresce sulle zone costiere del Mediterraneo.

cavoloDescrizione: Tutti i tipi di cavoli coltivati, anche se di aspetto molto diverso, sono varietà derivate dal cavolo selvatico che cresce sulle zone costiere del Mediterraneo e su quelle atlantiche, ad esclusione del “cavolo cinese” che deriva da una specie diversa, la “brassica sinensis”. A meno che non si voglia produrre seme, i cavoli in genere si coltivano con ciclo annuale anche se si tratta di piante a sviluppo biennale; le parti utilizzate sono in genere fusto, foglie e infiorescenze. Il cavolfiore coltivato corrisponde alla varietà “botrytis capitata”, che si distingue per il periodo di raccolta e per il colore dell’infiorescenza a palla. Il broccolo corrisponde invece alla varietà “botritys cymosa” ed è abbastanza diffuso in Italia soprattutto nel meridione. Rispetto al cavolfiore presenta un maggiore numero di foglie e oltre all’infiorescenza principale presenta germogli laterali (broccoletti).

10.- La doppia piramide: alimentare e ambientale.

Un modello per il benessere della persona e la salvaguardia dell’ambiente.

Qual è l’impatto ambientale dovuto alla produzione, alla distribuzione e al consumo dei cibi? Per rispondere a queste domande, il Barilla Center for Food and Nutrition ha ideato il modello della Doppia Piramide Alimentare – Ambientale, strumento che mette in relazione l’aspetto nutrizionale degli alimenti con il loro impatto ambientale.

Un unico modello alimentare nato per tutelare il benessere delle persone e dell’ambiente.

La piramide ambientale nasce studiando e misurando l’impatto sull’ambiente dei cibi presenti nella piramide alimentare, e disponendoli lungo un piramide capovolta, in cui gli alimenti posizionati più in basso (al vertice del triangolo) hanno il minore impatto ambientale. Accostando le due piramidi si ottiene così la “Doppia Piramide” Alimentare-Ambientale, dove si nota intuitivamente che gli alimenti per i quali è consigliato un consumo maggiore, generalmente sono anche quelli che determinano gli impatti ambientali minori. Viceversa, gli alimenti per i quali viene raccomandato un consumo ridotto sono anche quelli che hanno maggior impatto sull’ambiente.

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Le tecnologie delle energie rinnovabili non sono affatto immature, poco diffuse o troppo rischiose per gli investimenti nel medio e lungo periodo, anzi.

L'utilizzo del ciclo di vita del suolo per le energie rinnovabili è la stessa o addirittura inferiore rispetto ai combustibili fossili.

Anche l'energia idroelettrica può essere sostenibile, e portare benefici economici e ambientali. Le fonti rinnovabili, insieme all'efficienza energetica, sono in grado di sostituire i combustibili fossili in tutti i settori, anche in quello dei trasporti.

Non è vero che le energie rinnovabili hanno bisogno di incentivi economici, possono già competere per i loro stessi meriti.

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Questi e altri luoghi comuni da sfatare sono contenuti nel nuovo quiz on line del WWF Internazionale, (in più lingue, tra cui l'italiano) creato proprio per "smontare" le 'bufale' anti energie-rinnovabili, e i falsi miti che alimentano la credenza che non sia possibile, in tempi brevi, un passaggio dalle energie fossili alle rinnovabili (in primis sole, vento). 

IL WWF, con la campagna Seize your power, (in italiano 'Riprenditi l'energia', firma l'appello) sostiene proprio il contrario.

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La precocità della maturazione delle uve da cui si ottiene il vino da il nome "Primitivo" a questa Doc. Prodotto tipico delle zone costiere ionico-salentine, il vitigno si è successivamente diffuso in tutta la zona delle Murge nelle province di Bari e Taranto. Alcuni documenti storici raccontano che nel XVII secolo i monaci benedettini si dedicarono alla coltura intensiva di questo vitigno, soprattutto nella zona di Gioia del Colle, area in cui il clima era particolarmente favorevole alla coltura del Primitivo.

Il vino ebbe un grandissimo successo tanto che nel XIX secolo la coltivazione venne introdotta anche nel territorio di Taranto. Oggi il vino Primitivo viene prodotto non solo nelle aree della Doc, ma anche in tutto il territorio delle province di Taranto, Bari, Brindisi e Lecce, nelle versioni da pasto e Dolce naturale, Liquoroso secco e Liquoroso dolce naturale, adatte per il fine pasto.

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Come si conserva.

Il Primitivo di Manduria Doc si conserva al buio, a una temperatura costante fra 10 e 15°C; per impedire che il tappo si asciughi, l'umidità deve aggirarsi intorno al 70-75%. Le bottiglie vanno conservate in posizione orizzontale su scaffalature di legno.

Come si produce.

Il protocollo di produzione del Primitivo di Manduria Doc consente la fermentazione del mosto a contatto con la vinaccia, che durante questa fase rilascia parte delle sostanze in essa contenute, quali antociani e tannini. Durante la svinatura la vinaccia viene separata dal mosto. Dopo i travasi, si procede all'affinamento e a un periodo di invecchiamento obbligatorio di 7 mesi. Seguono poi la stabilizzazione e l'imbottigliamento.

Anche il Primitivo di Manduria Doc Dolce naturale viene invecchiato per un periodo minimo di 7 mesi; per il Liquoroso secco e il Liquoroso dolce naturale, invece, il disciplinare di produzione prevede un invecchiamento minimo di due anni. Il metodo di produzione delle tipologie Liquoroso prevede l'aggiunta di alcol di origine viticola o di acquavite di vino, che inibiscono la fermentazione e determinano una gradazione alcolica elevata.

Zona di produzione.

Come dice il nome stesso della DOC , il vino Primitivo di Manduria DOC viene prodotto in una zona che ha come "epicentro" Manduria , in provincia di Taranto , sebbene alcuni dei comuni citati nel disciplinare di produzione rientrino nella provincia confinante di Brindisi. Si tratta di una regione caratterizzata da roccia calcarea tufacea e argilla. Si tratta spesso di zone a ridosso del Mar Ionio e in alcuni casi direttamente a ridosso del mare , come il Dunico e gli altri vini della Masseria Pepe , con i vitigni praticamente piantati al confine con le dune sabbiose della spiaggia.

Il vitigno.

Il vitigno primitivo trae il suo nome dalla precocità della sua maturazione , che lo rende appunto uno fra i primi vitigni ad essere vendemmiati a fine Agosto. Questa precocità , però , non impedisce agli zuccheri di aumentare la loro concentrazione , tanto che la caratteristica principale dei vini ottenuti dal vitigno primitivo è la gradazione alcolica : la DOC Primitivo prevede infatti una gradazione minima di 14 gradi per il Primitivo di Manduria Secco , 16 gradi per il Primitivo di Manduria Dolce Naturale e addirittura 18 gradi per il Primitivo di Manduria Liquoroso.

La storia.

La produzione di vino nella costa ionica della Puglia si perde nella notte dei tempi , anche se le prime testimonianze scritte riguardano i modici benedettini nel medioevo. Era spesso utilizzato come uva da taglio per la sua alta gradazione alcolica anche a fronte di rese molto alte : per questo motivo dalla fine del XIX secolo ( quando comparve per la prima volta la dicitura "primitivo di Manduria su un'etichetta ) fino agli anni '70/'80 del 1900 l'obiettivo era la quantità. A partire dal 1975 , con la definizione della DOC , è iniziata la strada stretta e tortuosa della qualità , che grazie ad alcune aziende illuminate e al Consorzio di Tutela hanno fatto si che oggi il Primitivo di Manduria sia entrato di diritto nel novero dei grandi vini rossi italiani.

Abbinamenti consigliati.

Il Primitivo di Manduria Secco è un vino da pasto che si abbina con piatti saporiti e strutturati come salumi , formaggi piccanti , carni di maiale e primi a base di Ragù come le immancabili orecchiette. Il Primitivo di Manduria Dolce Naturale è un vino da meditazione che si sposa bene sia con pasticceria secca che con formaggi duri stagionati. Il Primitivo di Manduria Liquoroso Dolce , invece , si abbina meglio a pasticceria più elaborata come torte a base di creme.

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Il Recioto della Valpolicella è generalmente prodotto nella stagione invernale, al termine dell'appassimento delle uve. La fermentazione è piuttosto lunga e può avere una durata anche di oltre 30 giorni, periodo durante il quale il mosto è lasciato in contatto con le bucce, conferendo colore, aromi e struttura. Sarà la fermentazione a stabilire se il mosto diventerà Recioto oppure Amarone.

Quando la fermentazione è svolta completamente si ottiene l'Amarone, mentre nel caso in cui si conservi un residuo zuccherino, in genere non oltre il 12%, si ottiene il Recioto. La maturazione del Recioto è svolta in botte, le quali dimensioni e caratteristiche sono scelte dal produttore in accordo al risultato che si vuole ottenere.

Tradizionalmente la maturazione del Recioto veniva svolta in botte grande, mentre oggi non è raro l'utilizzo della barrique, così come non è raro l'impiego di entrambi i tipi. Alcuni produttori preferiscono infatti iniziare la maturazione nella barrique o nella botte, per poi trasferire il Recioto - dopo alcuni mesi - nell'altro tipo di contenitore.

ReciotoValpolicella

Zona di produzione e storia.

La zona di produzione della denominazione di origine controllata e garantita “Recioto della Valpolicella” comprende in tutto o in parte i territori dei Comuni di: Marano, Fumane, Negrar, S. Ambrogio, S. Pietro in Cariano, Dolcè, Verona, S. Martino Buon Albergo, Lavagno, Mezzane, Tregnago, Illasi, Colognola ai Colli, Cazzano di Tramigna, Grezzana, Pescantina, Cerro Veronese, S. Mauro di Saline e Montecchia di Crosara.
Il Recioto è il fulcro della storia e della tradizione della Valpolicella. Come l’Amarone è un vino di grande struttura e buona alcolicità, con residui zuccherini tali da renderlo dolce o amabile.
L’appassimento delle uve che generalmente  è condotto in locali (fruttai) ubicati in collina per le migliori condizioni metereologiche, si protrae dopo la vendemmia per un periodo variabile dai 100 ai 120 giorni: l’effetto più appariscente si manifesta con l’essiccamento dell’uva e il conseguente aumento del contenuto zuccherino e degli estratti.

Recioto della Valpolicella DOCG Recioto della Valpolicella DOCG (www.consorziovalpolicella.it)

Vitigni - Grado alcolometrico minimo - Invecchiamento e qualifiche.

I vini della denominazione di origine controllata e garantita “Recioto della Valpolicella” devono essere ottenuti dalle uve prodotte dai vigneti aventi, in ambito aziendale, la seguente composizione ampelografica:
- Corvina Veronese (Cruina o Corvina) dal 45% al 95 %; è tuttavia ammesso in tale ambito la presenza del Corvinone nella misura massima del 50%, in sostituzione di una pari percentuale di Corvina;
- Rondinella dal 5 % al 30 % .
Possono concorrere alla produzione di detti vini, fino ad un massimo del 25% totale le uve provenienti dai vitigni:
- a bacca rossa non aromatici, ammessi alla coltivazione per la provincia di Verona di cui al Registro nazionale delle varietà di viti approvato con DM 7 maggio 2004 (GU n. 242 del 14 ottobre 2004) e successivi aggiornamenti (allegato 1), nella misura massima del 15%, con un limite massimo del 10% per ogni singolo vitigno utilizzato;
- classificati autoctoni italiani ai sensi della legge n. 82/06, art. 2, a bacca rossa, ammessi alla coltivazione per la Provincia di Verona di cui al Registro nazionale delle varietà di viti approvato con DM 7 maggio 2004 (GU n. 242 del 14 ottobre 2004) e successivi aggiornamenti (allegato 1), per il rimanente quantitativo del 10% totale.

Il vino a denominazione di origine controllata e garantita “Recioto della Valpolicella”, anche con i riferimenti “classico” e “Valpantena”, all’atto dell’immissione al consumo, deve rispondere alle seguenti caratteristiche:
- titolo alcolometrico volumico effettivo minimo: 12,00% vol con un residuo alcolometrico volumico potenziale minimo di 2,80% vol;
- acidità totale minima: 5,0 g/l;
- estratto non riduttore minimo: 28,0 g/l.
Il vino a denominazione d’origine controllata e garantita “Recioto della Valpolicella” spumante, anche con il riferimento “Valpantena”, all’atto dell’immissione al consumo, deve rispondere alle seguenti caratteristiche:
- titolo alcolometrico volumico effettivo minimo: 12,00% vol con un residuo alcolometrico volumico potenziale minimo di 2.80% vol;
- acidità totale minima: 5,0 g/l;
- estratto non riduttore minimo: 28,0 g/l.

Caratteristiche organolettiche.

Il vino a denominazione di origine controllata e garantita “Recioto della Valpolicella”, anche con i riferimenti “classico” e “Valpantena”, all’atto dell’immissione al consumo, deve rispondere alle seguenti caratteristiche:
- colore: rosso carico, talvolta con riflessi violacei eventualmente tendente al granato con l’invecchiamento;
- odore: caratteristico, accentuato;
- sapore: pieno, vellutato, caldo, delicato, dolce.
Il vino a denominazione d’origine controllata e garantita “Recioto della Valpolicella” spumante, anche con il riferimento “Valpantena”, all’atto dell’immissione al consumo, deve rispondere alle seguenti caratteristiche :
- spuma: fine, persistente;
- colore: rosso carico talvolta con riflessi violacei;
- odore: caratteristico, accentuato, intenso;
- sapore: delicato, pieno, caldo, dolce.

Abbinamenti e temperatura di servizio.

È ideale a fine pasto, in abbinamento a dolci al cioccolato, ma anche a pasticceria secca. Va servito a 12°C

Grappolo di Garganega Grappolo di Garganega (foto http://isolafelice.forumcommunity.net)

Non si sa con certezza quando sia nato il Vino Santo trentino, tuttavia a guardare l’attaccamento con cui ancor oggi i vignaioli della Valle dei Laghi coltivano la vite in campi strappati alla montagna, incastonati fra le rocce e l’orgoglio con cui conservano cimeli, ricordi e vecchie bottiglie che raccontano la storia di questo passito, si ha la netta impressione che esso sia un’eredità orgogliosamente difesa e intensamente partecipata: il Vino Santo può essere considerato un ”vino corale”, un patrimonio di esperienze cui generazioni e generazioni di vignaioli hanno dato il loro contributo.

Le prime testimonianze storiche di questa tradizione risalgono al Cinquecento, quando cominciano ad essere citati dei vini bianchi dolci, veri e propri progenitori del Vino Santo. In un documento del 1508, fra i beni che vengono pagati ogni anno dal capitano di Castel Toblino al principe vescovo di Trento, si citano “sei palustri di vino bianco dolce”; il Mariani, storico del Concilio, parlando del banchetto offerto il 25 luglio 1546 dal cardinale di Trento parla di “vini squisitissimi, bianchi, rossi e rosati dei colli di Trento e vini dolci di Santa Massenza”.

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Venendo a tempi più recenti la documentazione si fa più ricca, ed è così che nei primi anni del XIX secolo i Conti Wolkenstein, allora proprietari di Castel Toblino, si segnalano per la produzione di uno squisito passito di Nosiola e nel 1825 il Vino Santo di Sommadossi, amministratore dei Conti, è insignito in Australia, a Melbourne, di un diploma di merito per le sue caratteristiche di eccellenza.

Le due guerre mondiali segnano un momento di crisi: molte cantine sono costrette a chiudere o a ridimensionare la produzione sia per i danni causati dalle vicende belliche sia per l’incipiente concorrenza di vini dolci prodotti industrialmente con tecniche veloci ed economiche. Nel secondo dopoguerra, la produzione viene quasi sospesa.

Solo negli anni sessanta, con uno scatto di orgoglio in nome di un’eredità vissuta come elemento identitario di un’intera comunità, un piccolo gruppo di vignaioli rilancia l’appassimento delle uve Nosiola. E’ una rinascita non facile, ma sorretta dalla convinzione di vignaioli decisi a restituire prestigio ad un prodotto indissolubilmente legato alla Valle dei Laghi.

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E’ il vino dolce trentino per eccellenza. All’origine di questo piccolo capolavoro prodotto in Valle dei Laghi c’è un’uva a bacca bianca, autoctona, la Nosiola.

Raccolti con cura, per non schiacciarne gli acini, i grappoli di Nosiola vengono portati negli appassitoi dove riposano fino alla settimana Santa. Qui vengono distesi sulle arele, i graticci, un tempo con fondo in canne, oggi con rete metallica dalle maglie più o meno fitte, dove prende avvio il processo di appassimento che ne riduce il peso di oltre un terzo.

Responsabile principale del fenomeno è la botrytis cinerea, una “muffa nobile”, che si sviluppa sugli acini provocando la dispersione dell’acqua e la concentrazione degli zuccheri. L’attività della Botrytis è favorita da particolari condizioni di temperatura e ventilazione che in Valle dei Laghi trovano un perfetto equilibrio: l’Ora del Garda, il vento pomeridiano che spira dal lago verso l’interno e il microclima temperato, dovuto alla configurazione della valle e alla presenza di tanti piccoli specchi d’acqua, offrono un contributo importante all’attività della muffa.

Durante la Settimana Santa, da cui probabilmente il nome del vino, le uve così appassite vengono sottoposte alla spremitura. Si ottiene pochissimo mosto; la fermentazione, molto lenta, si interrompe naturalmente prima che tutto lo zucchero si trasformi in alcol. A questo punto ha inizio un lungo processo di invecchiamento che porta anche ad un naturale illimpidimento.

Dopo almeno quattro anni dalla vendemmia – periodo minimo fissato dal disciplinare – avviene l’imbottigliamento: ma la maggior parte dei produttori attende pazientemente molto di più, minimo sette - otto anni, normalmente dieci. Una volta in bottiglia il Vino Santo può sfidare il tempo: i fortunati raccontano che anche dopo mezzo secolo una bottiglia ben conservata rimane sempre un’esperienza gratificate. Un vino quindi da dimenticare in cantina per riscoprirlo piacevolmente dopo molti anni.

Transient

Un vino raro e prezioso, “passito dei passiti”, il Vino Santo ha una localizzazione geografica precisa, che non ammette fraintendimenti. La Valle dei Laghi, lì dove l’Ora, il vento del Garda, soffia e accarezza i filari delle viti, omaggiandoli di benefici influssi. Dove le vigne si estendono accanto agli olivi e, come vecchi amici, si scambiano consigli e raccomandazioni.

Ma la Valle dei Laghi è fatta pure di persone, un’intera comunità di vignaioli pazienti e laboriosi. Non c’è una casa qui in cui non sia possibile ascoltare una storia, un ricordo o un aneddoto legato all’antica tradizione del Vino Santo.

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Le proprietà del miele: è uno degli alimenti le cui proprietà salutari sono già note da migliaia di anni. Proprietà di cui, del resto, è particolarmente ricco. Infatti il miele viene usato in moltissimi contesti e da moltissimo tempo con risultati più che soddisfacenti

Per millenni è stato l'unico dolcificante di cui l'uomo ha potuto disporre e ad esso è sempre stata accordata enorme importanza tanto da venire considerato, dalla mitologia greca e romana "cibo degli dei". Vediamo in seguito le mille proprietà di questo favoloso alimento.

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Cos'è il miele

Il miele è una sostanza prodotta dalle api a partire dal nettare dei fiori. Le api raccolgono il nettare, lo disidratano per evitare che fermenti e vi aggiungono degli enzimi. Infine lo depositano nei favi per l'immagazzinamento.
Va precisato che non tutti i tipi di miele sono originati dal nettare dei fiori, infatti, esistono delle eccezioni come per esempio il miele di quercia che è prodotto a partire da delle secrezioni della pianata. Le caratteristiche organolettiche del miele variano a seconda della specie di piante dalle quali le api succhiano il polline, dalla stagione di raccolta, dall'ambiente territoriale e dal clima.

Proprietà e benefici del miele

Fin dall'antichita', grazie alle numerose sostanze che lo compongono, il miele è stato considerato utile nella prevenzione e nella cura di numerose malattie: veniva usato come equilibrante del sistema nervoso, per placare l'insonnia, regolare l'intestino e aiutare la digestione; era considerato di valido aiuto per ottenere la cicatrizzazione piu' rapida delle ferite ed era consigliato a chi avesse problemi alle vie respiratorie o disturbi cardiocircolatori.

Dopo essere stato trascurato per un periodo a causa della scoperta dello zucchero, si è tornati ad apprezzare le sue virtu' terapeutiche, tra le quali l'azione sul metabolismo, sul sistema nervoso, sullo stomaco, sull'intestino, sull'apparato respiratorio e sul cuore.

Data la sua nota ricchezza di vitamine, minerali ed aminoacidi, ad oggi è un forte alleato nella cura della tosse e dei raffreddori invernali; il consiglio della nonna: una tazza di latte caldo col miele è un ottimo rimedio per superare al meglio un raffreddore o un'influenza.

Questo delizioso mezzo terapeutico ha anche la capacita' di favorire la crescita e lo sviluppo muscolare (basti pensare alle virtu' ricostituenti della pappa reale) e cio' lo rende consigliabile nella dieta dei bambini, che ne trarranno grande beneficio.

Ricordandone poi la facile digeribilita' ed assimilazione, dovrebbe essere considerato un alimento quasi indispensabile per le persone anziane e i malati.

L'immediato apporto nutritivo e calorico lo rendono utile a chiunque sia soggetto a notevoli sforzi o pratichi uno sport; nutrendosene regolarmente, si otterra' il vantaggio di irrobustire il corpo e ricavarne poi quell'immediata energia necessaria a svolgere un'attivita' fisica.Molto apprezzato anche in cucina e in pasticceria, dove è usato per addolcire bevande e infusi, o per preparare dolci come i biscotti e semifreddi e per dare un sapore agrodolce ai piatti salati e alla carne. Gli abbinamenti più insoliti sono con il formaggio, in particolare con quello stagionato e con le verdure.

La conservazione del miele.

Affinchè conservi inalterate le sue preziose caratteristiche biologiche, il miele deve essere estratto dai favi "a freddo", per semplice centrifugazione e senza alcun trattamento termico (oltre i 45 gradi infatti inizia a denaturarsi); va quindi filtrato e lasciato decantare in appositi recipienti, ovvero introdotto in vasi di vetro dove, dopo un certo tempo, inizia a cristallizzare.Ciò ci fa dedurre che in realtà la sua cristallizzazione non è segno di deterioramento, ed avviene in misura e tempi diversi a seconda del tipo di miele.

Per eliminare questa caratteristica, se non fosse gradita, non bisogna fare altro che mettere il barattolo di miele in acqua calda, che non deve però superare i 45 gradi, per non rovinare le caratteristiche del prodotto.
La conservazione del miele non crea normalmente problemi, è un alimento che resiste a lungo e non diventa mai tossico.

Tipologie di miele.

I mieli migliori come qualità sono senz'altro quelli Italiani, certificati in etichetta, per distinguerli da quelli di importazione, senza dubbio di qualità inferiore.

Vi sono diversi tipi di miele che, pur presentando caratteristiche comuni, si differenziano tra di loro per il colore, il profumo, la densita' e le caratteristiche peculiari assicurate dai differenti tipi di polline impiegati. I piu' comuni sono:

Miele di acacia.

Ricco di sali, di ferro e di calcio, e’ limpidissimo, di colore chiaro ed il suo sapore e’ particolarmente delicato. Ha proprieta' ricostituenti, e' un ottimo disintossicante del fegato ed e' particolarmente valido contro le irritazioni della gola.

Miele d'arancio.

Di colore molto chiaro, il miele d'arancio ha un profumo intenso e un aroma delicato. È un miele ricco di vitamina B12 e svolge un'azione benefica per il cuore ed il fegato. Il suo uso viene consigliato per curare l'insonnia, aggiunto alle tisane.

Miele di castagno.

Di colore scuro, ha sapore molto forte, che tende all'amaro. Ricco di ferro, stimola la produzione dei globuli rossi ed è quindi da considerare un ottimo ricostituente. Combatte la tosse e viene consigliato a chi soffre di ulcere.In cucina è ottimo come abbinamento ai formaggi.

Miele di tiglio.

Dal colore giallognolo tendente al bianco, il miele di tiglio è molto profumato ed il suo uso e' consigliato per vincere le emicranie, il nervosismo, l'insonnia e la dismenorrea.

Miele di girasole.

Dal colore chiaro e dal profumo delicatissimo, il miele di girasole è consigliato come antinevralgico, diuretico e astringente.

Miele di eucalipto.

Dal colore ambrato, ha un sapore molto forte e particolare. Le sue note proprieta' balsamiche combattono raffreddori, bronchiti e raucedini.

Miele di trifoglio.

Dal colore bianco e dall'odore delicato, ha caratteristiche energetiche, quindi e' adatto a chi deve sottoporsi a sforzi.

Miele di lavanda.

Di colore ambrato e di sapore delicato e aromatico, il miele di lavanda ha caratteristiche analgesiche, antisettiche e battericide. Ottimo per l'insonnia e come antidolorifico per ferite e punture di insetti.

Miele di timo.

Dal colore chiaro e dall'aroma intenso, il miele di timo disseta se aggiunto ad acqua e limone. E' anche prezioso come disinfettante bronchiale ed intestinale

Miele di rosmarino.

Di colore biancastro e dall'odore molto delicato, il miele di rosmarino è un miele dalle innumerevoli capacità curative: è di aiuto agli anemici, ai colitici, ai nevrastenici.

Miele di mandorle.

Dal colore chiaro e dal profumo intenso, viene usato come regolatore intestinale e ricostituente.

Insomma, tanti tipi di miele per ogni uso.

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L’argomento dei vitigni autoctoni è disciplinato dalla Legge n. 82 del 20 febbraio 2006 ‘Disposizioni di attuazione della normativa comunitaria concernente l’organizzazione comune di mercato (OCM) del vino’ pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 13 marzo 2006 - Supplemento ordinario n. 59; a integrazione delle definizioni previste dall’articolo 1, paragrafi 2 e 3, e dall’allegato I del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, che stabilisce le definizioni dei prodotti nazionali. Dalla legge si evince che “È definito ‘vitigno autoctono italiano’ il vitigno la cui presenza è rilevata in aree geografiche delimitate del territorio nazionale”. E sono le Regioni (e le province autonome di Trento e di Bolzano) ad accertare la coltivazione di vitigni autoctoni italiani sul territorio di competenza.
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A tale fine esse verificano la permanenza della coltivazione per un periodo di almeno cinquanta anni, la diffusione sul territorio, il nome, la descrizione ampelografica e le caratteristiche agronomiche dei vitigni. Le Regioni trasmettono la documentazione necessaria al ‘Comitato nazionale per la classificazione delle varietà di viti’, che la esamina e accerta la sua rispondenza alle prescrizioni, provvedendo poi alla iscrizione del vitigno nel Registro nazionale delle varietà di viti con l’indicazione ‘vitigno autoctono italiano’. A questo punto il vitigno viene iscritto con l’indicazione del nome storico tradizionale, di eventuali sinonimi, delle principali caratteristiche di colore dell’acino e della zona di coltivazione di riferimento. Tutte le regioni italiane, oggi, sono al lavoro per definire un elenco dei propri vitigni autoctoni. Quindi ancora non c’è nulla di definitivo. In Romagna, probabilmente, i vitigni autoctoni, saranno: Albana, Albana nera, Canina nera, Centesimino, Negrettino e Uva longanesi.

Albana.
Il vitigno ha come sinonimi: albanone o albana grossa e poi sempre albana, a grappolo fitto, a grappolo lungo, della forcella o forcella, a grappolo rado o gentile, di Bertinoro, di Forlì, di Romagna, del riminese o riminese. Ritenuti errati sono invece greco, greco di Ancona, biancame, albana d’Istria, bianchetto di Treviso, albanella di Romagna. L’albana è il vitigno romagnolo per eccellenza. La zona di coltivazione è quella collinare e ben delimitata: felicemente influenzata dal Mare Adriatico, dagli Appennini, dai fiumi di medio percorso, dalle buone e costanti precipitazioni, dai venti che spirano quasi ininterrotti. I terreni sono caratterizzati dalla prevalenza calcarea, arricchita da fossili marini e residui organici, con la migliore esposizione dei vigneti da est a sud, in grado di favorire l’azione del sole e garantire una piena ed ottimale maturazione delle uve. Il suolo classico dell’albana è il cosiddetto ‘spungone romagnolo’, che si allunga dalla zona storica di Bertinoro fino all’imolese, tutte aree collinari, ad altezze variabili tra 100 e 200 m/slm. I vari tentativi di coltivare l’albana al di fuori della Romagna sono sempre falliti miseramente.
È un vitigno molto antico, con origini talmente remote da rendere difficile la distinzione tra storia e leggenda. L’origine del nome sembra derivi dai Colli Albani, la provenienza dei legionari colonizzatori della Romagna o dal colore dell’uva chiara, da cui ‘albus’ (bianco per eccellenza) = albana. Il nome ‘albana’ compare ufficialmente per la prima volta, nel 1233, (Pier De’ Crescenzi, Ruralium Commodorium Libri Duodecim). L’albana è un vitigno a bacca bianca, ma con le caratteristiche di uno a bacca rossa, poiché ha una notevole ricchezza di tannini nei vinaccioli e nelle bucce ed esprime il suo maggior potenziale con particolari vinificazioni che prevedono il residuo zuccherino.
Albana nera.
Chiamata anche albana rossa, è un antico vitigno romagnolo, coltivato fin dal 1600, nelle campagne del ravennate e in particolare nella zona faentina, al confine con il bolognese. Dall’imolese e dal faentino, poi la coltivazione dell’albana nera si diffuse, non uniformemente, nella pianura romagnola. Già presente in un elenco di vitigni coltivati in provincia di Bologna del 1879, l’uva origina un vino rosso intenso, con sfumature granato e con schiuma persistente; il profumo ricorda molto gli odori della post-fermentazione; il sapore è asciutto, leggermente frizzante e piacevolmente ammandorlato. Un vino, dunque, che crea allegria, accompagna il pasto delle rustiche mense contadine, in particolare con gli insaccati di maiale e resiste discretamente uno o due anni. Negli ultimi decenni la coltivazione dell’albana rossa si è ridotta a pochi filari nella zona collinare di Faenza e Brisighella ed il consumo è a livello familiare ed amatoriale.
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Canina o canèna.
È un vitigno tipico romagnolo coltivato principalmente a Russi, Bagnacavallo, Faenza, Cotignola, Lugo e Castel Bolognese. Nel secolo scorso è stato confuso con il canaiolo nero, della Toscana; in ogni caso, è spesso scambiato con il vitigno della Cagnina, in realtà è molto diverso. La canina è piuttosto rara, si trova ancora coltivata in pochi filari, per uso familiare, per gli amici e per la piccola vendita locale. Oggi non si vinifica più in purezza, è più facile trovarla utilizzata con altre uve rosse nostrane. Il vino Canina, in edizione moderna, ha sempre il colore rosso tenue del melograno, con un tono cerasuolo, il profumo è fruttato, con sentori di piccoli frutti e di terra bagnata; il sapore è simpaticamente aspro e spigoloso; talvolta amabile (il che la fa confondere con la Cagnina), debole di corpo e con un basso titolo alcolometrico 11-11.5%, già pronto da consumare in ottobre. È il vino servito con il ‘bel e cot’ nell’ambito della ‘Fira di sett dulur’ di Russi, verso la terza settimana di settembre di ogni anno. Si dice che fosse - nella zona di Cotignola - il vino amato particolarmente da Stefano Pelloni, detto il Passatore e dalla sua banda, consumato nei tradizionali boccali di terracotta. È un vino precoce, amato dai contadini, si potrebbe definire ‘novello’, da consumare nei mesi freddi, quando arrivano le castagne e la voglia di piatti a base di maiale, e da esaurire entro la primavera.
Centesimino.
Centesimino, o sauvignôn rosso, o anche savignon rosso, com’è chiamato nel faentino, è una varietà di uva coltivata in Romagna almeno dal secondo dopoguerra. Verso la metà degli anni ‘60 si arrivò perfino ad un tentativo di valorizzazione di questo vitigno, tanto che l’aggiunto-agronomo delle Opere Pie Raggruppate Paolo Visani, propose di imbottigliare parte del vino ottenuto e fece realizzare dalle Litografie Artistiche Faentine un’etichetta da apporre sulle bottiglie. Fonti scritte e passa parola consentirono di verificare che i numerosi vigneti messi a dimora tra gli anni ‘60 e ‘70 nella zona di Oriolo derivavano da impianti precedenti, a loro volta allestiti prendendo il materiale da un vigneto presente nel podere ‘Terbato’ di proprietà del signor Pietro Pianori, detto Centesimino. Dagli anni ‘60 ad oggi il vitigno è stato indicato con uva di centesimino, dal soprannome del viticoltore che per primo iniziò la coltivazione.
Negrettino.
Sinonimi: neretto, negretto, maiolo. Vitigno coltivato nella provincia di Bologna e già menzionato dal De’ Crescenzi nel 1495. Le notizie storiche, del vitigno, sono incerte e contraddittorie. È, in ogni modo, un antichissimo vitigno romagnolo a bacca rossa, che nei secoli è stato scambiato con altre uve rosse similari. Dal negrettino si ottiene un vino dolce, molto amato e beverino, considerato terapeutico poiché garantiva una proverbiale facile digestione. In Romagna, con il negrettino vinificato in purezza, si ottiene un vino semplice, con caratteristiche ben precise: colore rosso amaranto intenso con toni violacei; profumo fresco e vinoso, con sentori di piccoli frutti rossi come il lampone e l’amarena; gusto amabile, vivace, fruttato, leggermente tannico e piacevolmente acidulo, debole di corpo e leggero d’alcol (10% o poco più). Era vino pronto in poche settimane, da bere entro pochi mesi, poiché, per la sua delicatezza, non reggeva il tempo e si sposava bene con le crostate di frutta rossa, i dolci casalinghi, i tortelli con la saba, le frittelle dolci, i dolci tradizionali fatti con la farina di castagne. Oggi è un’uva poco coltivata, in alcune zone del forlivese e del faentino, per l’uso familiare e di pochi, ma fortunati, appassionati.
Uva Longanesi.
La produzione di questo vitigno, detto anche Bursôn, dal soprannome della famiglia che lo ha salvato, si estende su una superficie di 200 ettari e trova le condizioni ottimali nella pianura ravennate e nelle colline faentine. L’uva longanesi potrebbe essere uno di quei vecchi vitigni, salvato per la resistenza dei grappoli alla marcescenza e per la rusticità della pianta. Proprio per queste sue caratteristiche qualche ceppo era piantato nei ‘roccoli’, aree boschive al limite dei fondi rustici, dove si praticava la caccia dal capanno agli uccelli di passo, perché la presenza di uva matura sulle piante fino a tutto novembre serviva da richiamo. Ed è proprio abbarbicata ad una quercia del ‘roccolo’ che Aldo Longanesi la trovò, quando intorno agli anni venti prese possesso del suo fondo di Via Boncellino a Bagnacavallo. La sua sopravvivenza nel tempo si deve ad Antonio Longanesi, il quale negli anni ‘50 lo trovò nel suo podere. Fece alcuni innesti e attese la prima uva. Con stupore il risultato si rivelò un grande successo. L’uva longanesi, secondo esami di laboratorio, ha un Dna completamente diverso da quello di altri vitigni italiani a bacca rossa. Qualcuno lo chiama un po’ scherzosamente ‘amarene della pianura’, in ogni modo, ha un sapore davvero esuberante e caldo, con tannini solo leggermente amarognoli. Il Consorzio di Bagnacavallo, fondato nel 1999, con l’obiettivo di valorizzare e salvaguardare i tanti prodotti tipici della zona, associa 14 produttori e 24 viticoltori, vincolati al rispetto di un regolamento interno che è aggiornato periodicamente ed ha brevettato il Bursôn. Il risultato è un vino nato piuttosto ricco di antociani e polifenoli, ma che nella crescita ha progressivamente ammorbidito le sue caratteristiche
Mappa DOP IGP Tradizionali 09














Il pesco è probabilmente originario della Cina (secondo alcuni del Medio Oriente - Persia), dove lo si può ancora rinvenire allo stato selvatico.

L'introduzione del pesco in Europa viene da alcuni attribuita ad Alessandro Magno a seguito delle sue spedizioni contro i Persiani, secondo altri i Greci lo avrebbero introdotto dall'Egitto.

Viene coltivato in molti Stati nelle zone con clima temperato mite. A livello mondiale i maggiori produttori sono gli Stati Uniti, seguiti dall'Italia, Spagna, Grecia, Cina, Francia e Argentina.

In Italia le regioni maggiori produttrici sono l'Emilia-Romagna (circa 1/3 della produzione), Campania (1/4), Veneto e Lazio. I primi pescheti specializzati in Italia risalgono alla fine dell'800 e sono stati realizzati in provincia di Ravenna.

pesco fiore

Il pesco appartiene alla famiglia delle Rosaceae, tribù delle Amigdaleae, sezione delle Prunoidee , genere Persica, specie vulgaris. Secondo altri studiosi apparterrebbe al genere Prunus (specie persica), come l'albicocco, il ciliegio, il mandorlo e il susino.

Il genere Persica comprende varie specie, tra cui diverse ornamentali. Tra quelle coltivate ricordiamo:
- Persica vulgaris Mill. (= Prunus persica (L.) Batsch.): produce frutti con buccia tomentosa; da consumo fresco o da industria;
- Persica laevis DC (= Prunus persica var. necturina Maxim., Prunus persica var. laevis Gray): pesco noce o nettarina, che produce frutti glabri da consumo fresco.

Il pesco comune è un albero di modeste dimensioni, alto fino a ca. 8 m, con apparato radicale molto superficiale, corteccia bruno-cenerina e rami radi, divaricati, rosso-bruni.

Le foglie sono lanceolate, strette, seghettate.

I fiori, che sbocciano prima della comparsa delle foglie, sono ermafroditi, ascellari, pentameri, colorati in rosa più o meno intenso. I petali sono cinque, il calice è gamosepalo, con cinque sepali; gli stami sono numerosi, fino a 20-30. Il pesco è, in genere, una specie autofertile. Gli ovuli, generalmente due, non giungono tutti a maturazione, ma solo uno di essi viene fecondato e giunge a maturità. Il nocciolo di pesco contiene perciò un solo seme (o mandorla) solcato profondamente, che è di sapore amaro per l'elevato contenuto di amigdalina, un glucoside cianogenetico caratteristico di alcune drupacee. I frutti (le pesche) sono drupe carnose, tondeggianti, solcate longitudinalmente da un lato, coperte da una buccia tomentosa (pesche propriamente dette) o glabra (pesche-noci o nettarine) di vario colore. La polpa è succulenta, di sapore zuccherino più o meno acidulo, di color bianco, giallo o verdastro. La pesca ha una tipica consistenza polposa e succosa che è dovuta all'elevato contenuto in acqua ed alla presenza di pectina.
La maturazione dei frutti avviene tra la prima e la seconda decade di maggio nelle zone meridionali, fino alla fine di settembre per le cultivar più tardive.
In linea di massima le condizioni climatiche italiane e degli altri Paesi mediterranei sono ideali per la coltivazione del pesco che può sopportare limiti assai ampi, da minime invernali di anche -15 -18°C fino ad ambienti subtropicali dove il riposo invernale è alquanto limitato.

Pesche varietà Regina di Londa Pesche varietà Regina di Londa

Varietà e portinnesti.

La scelta del portinnesto dipende da numerosi fattori: il tipo di terreno, le colture che hanno preceduto, la possibilità o meno di irrigare, la reperibilità sul mercato vivaistico, la varietà, ecc. Numerosi sono i possibili portinnesti utilizzabili anche se, nella pratica, quelli più diffusi sono pochi. Ricordiamo: Franco Slavo, Selezioni del franco, Serie P.S., GF 677, Sirio, Hansen, Barrier 1, Susino, M.r.S 2/5, Penta e Tetra.

Le cultivar di pesco, in relazione alla specie di appartenenza e al tipo di prodotto fornito, vengono distinte in:
- cultivar da consumo fresco;
- nettarine;
- percoche.

Nell'ambito delle specie fruttifere maggiormente diffuse nel nostro paese, il pesco da sempre registra la più ampia "creatività" intesa come numero di nuove cultivar che annualmente vengono poste all'attenzione dei frutticoltori. Tale situazione pone problematiche sia al mondo della ricerca, per le difficoltà che si incontrano nel tentativo di valutare preventivamente le "novità varietali" prima che siano rese note sui cataloghi vivaistici; sia a quello produttivo, per il disorientamento che provoca tra i frutticoltori al momento della scelta delle cultivar che dovrebbero rispondere alle esigenze programmatiche dei nuovi impianti da realizzare. Questo intenso dinamismo ha modificato sostanzialmente il "vecchio assortimento varietale", cosa non avvenuta per molte altre specie fruttifere.


Soprattutto nell'ultimo decennio si è assistito ad importanti mutamenti dei caratteri pomologici e commerciali delle nuove cultivar di pesco che interessano sostanzialmente:

a) il colore dell'epidermide, che si è evoluto dal rosso più o meno soffuso e spesso striato su fondo difficilmente privo di verde, seppure chiaro, ad un rosso molto intenso ed estremamente unito, che compare spesso assai prima dell'epoca di raccolta commerciale dei frutti;
b) il sapore della polpa, che tende ad "appiattirsi" rispetto a quello tipico delle "vecchie cultivar", tanto a polpa gialla (generalmente più acide), quanto a polpa bianca (quasi sempre più sapide, perché maggiormente ricche di zuccheri);
c) la consistenza del frutto, tanto sull'albero che post-raccolta, che nelle "nuove cultivar" si presenta elevata o molto elevata, rispetto a quella media o medio-scarsa delle "vecchie cultivar".
Queste modificazioni hanno interessato le cultivar per il consumo fresco, tanto di pesco che di nettarine, ma non quelle per l'industria, più legate a specifiche esigenze tecnologiche dei mezzi meccanici e chimici utilizzati per la trasformazione dei frutti.

Le cultivar da consumo fresco vengono distinte in:
- cultivar a polpa gialla consigliate: Earrly Maycrest, Queencrest, Maycrest, Springcrest, Spring Lady, Springbelle, Royal Glory, Flavorcrest, Redhaven, Rich Lady, Lizbeth, Red Moon, Red Topo, Summer Rich, Maria Marta, Glohaven, Pontina, Romestar, Elegant Lady, Suncrest, Red Coast, Symphonie, Franca, Sibelle, Cresthaven, Roberta Barolo, Bolero, Fayette, Promesse, Sunprice, Aurelia, Early O'Henry, Padana, Calred, O'Henry, Guglielmina, Parade, Flaminia, Fairtime;

- cultivar a polpa bianca consigliate: Primerose, Springtime, Alexandra, Felicia, Anita, Iris Rosso, Maria Grazia, Daisy, Alba, Bea, Redhaven Bianca, Maria Bianca, Fidelia, White Lady, Rosa del West, Maria Rosa, Rossa San Carlo, Maria Angela, Tendresse, Toro, Dolores, K2, Regina Bianca, Duchessa d'Este, Maria Delizia, Tardivo Giuliani, Michelini, Regina di Londa.

Le nettarine possono essere distinte in:
- a polpa gialla consigliate: May Glo, Lavinia, Armking, Rita Star, Maria Emilia, Supercrimson, May Diamond, Red Delight, Weinberger, Gioia, Early Sungrand, Big Top, Spring Red, Firebrite, Maria Laura, Independence, Flavor Gold, Pegaso, Maria Carla, Red Diamond, Antares, Summer Grand, Flavortop, Stark Redgold, Nectaross, Maria Aurelia, Venus, Maria Dolce, Orion, Sweet Red, Caldesi 84, Royal Giant, Sirio, Scarlet Red, Fairlane, Tastyfree, Caldesi 85, California;
- a polpa bianca: Silver King, Caldesi 2000, Caldesi 2010, Silver Star, Silver Moon, Caldesi 2020.

Tra le pesche da industria (o percoche) consigliate ricordiamo: Federica, Tirrenia, Loadel, Villa Giulia, Romea, Villa Adriana, Tebana, Adriatica, Lamone, Villa Ada, Babygold 6, Villa Doria, Carson, Vivian, Andross, Jungerman, Babygold 9, Merriam.

Pesche varietà Regina di Londa Pesche varietà Regina di Londa

Tecnica colturale.

Il pescheto può essere eseguito con astoni innestati da vivaio, piante innestate a gemma dormiente (1-2 gemme), con portinnesti di un anno da innestare in campo e anche con piante in vaso innestate e in vegetazione.

I sistemi di allevamento del pesco si possono classificare in: forme in volume, forme a parete verticale e a pareti inclinate. Tutte le forme si possono ottenere più o meno rapidamente a seconda che si privilegi una potatura che si preoccupi soprattutto della forma voluta oppure la precoce entrata in produzione, limitando quanto più possibile interventi di taglio nei primi anni arrivando alla forma voluta più tardi. La moderna frutticoltura tende sempre più al secondo metodo per ammortizzare i costi nel minor tempo possibile. In generale, si può affermare che l’attuale tecnica tende a contenere lo sviluppo delle piante al fine di ridurre i tempi di lavoro.

Le forme di allevamento utilizzate nelle diverse realtà persicole sono: vaso, vasetto ritardato, vaso veronese, Palbidone, Palmetta, Pal-spindel, Fusetto, Ipsilon trasversale.

La scelta del sesto d'impianto deve tenere conto di molti elementi: il portinnesto, la fertilità del terreno, la forma di allevamento, la disponibilità di acqua, la varietà , ecc.

La potatura di produzione ha lo scopo di regolare la produzione e migliorare la qualità dei frutti. Nel pesco inizia molto presto: già al secondo anno compaiono diversi frutti e al quarto o al quinto anno si passa alla piena produzione; l’intensità del diradamento dei rami misti deve anch’essa essere man mano maggiore fino a raggiungere il 50-70 % nella fase adulta. Al raggiungimento della piena fruttificazione si deve porre la massima attenzione per mantenere il giusto equilibrio fra vegetazione e produzione, distribuendo quest’ultima sulle branche primarie e secondarie in modo razionale mediante l’asportazione dei rami che hanno prodotto e tagli di ritorno sopra uno o più rami misti di giusto vigore, eliminando i rami troppo vigorosi o male inseriti così da mantenere i rami a frutto il più possibile vicino alla struttura scheletrica della pianta.

Le varietà di pesche da industria (percoche), in generale, producono meglio sui dardi (mazzetti di maggio) e sui brindilli inseriti sui rami che hanno già fruttificato (grondacci), pertanto questi non vanno asportati completamente ma accorciati o diradati in quanto per queste varietà l’industria richiede frutti di pezzatura uniforme e non grossa.

Durante la piena fruttificazione è necessario eseguire uno o due interventi in verde per asportare i succhioni, diradare o piegare i germogli onde favorire una buona lignificazione e mantenere rivestita la parte basale della chioma.

Il diradamento dei frutti è la più importante operazione per ottenere frutti di pezzatura commerciale a complemento della potatura sia di allevamento che di produzione. Va eseguita alla quarta-sesta settimana (25-35 giorni) dopo la piena fioritura: iniziata precocemente assicura una miglior pezzatura dei frutti, un anticipo della maturazione, miglior colore e maggiore differenziazione di gemme per l’anno successivo ma, nelle varietà soggette a spaccatura del nocciolo, ne accentua il difetto. Nelle varietà molto precoci e sotto tunnel di forzatura, può essere utile eseguire il diradamento in due volte, una prima volta energica e una seconda di rifinitura.

La corretta nutrizione è un elemento fondamentale per assicurare elevati livelli produttivi e qualitativi del pescheto; essa deve tenere conto di tutte le tecniche colturali applicate e delle reali condizioni del terreno opportunamente analizzato. L’estrema diversità di tipi di terreno e di ambienti in cui il pesco viene coltivato rende impossibile una generalizzazione della concimazione; questa deve sempre essere fatta sulla base di informazioni relative alle caratteristiche fisico-chimiche risultanti dalle analisi del terreno.

Durante la preparazione del terreno è sempre consigliabile un’abbondante concimazione organica sia generalizzata che localizzata sulla fila o nella buca; nei terreni sciolti, grossolani, è opportuno frazionare gli apporti organici distribuendone parte prima dell’impianto e parte alla fine della prima vegetazione, calcolando che per ogni 100 quintali di letame si apportano circa 50 unità di azoto, 30 unità di fosforo, 40 unità di potassio, microelementi, e si migliora la struttura del terreno nonché l’assorbimento degli elementi nutritivi. La concimazione minerale deve tenere conto delle dotazioni di fosforo e potassio rilevate. Con le nuove tecniche il periodo di allevamento è ridotto quasi ad una sola vegetazione, pertanto fin dal primo anno si deve intervenire con la concimazione in funzione della produzione; questa dovrebbe essere guidata dalla diagnostica fogliare stante la diversità di condizioni che caratterizza le aree peschicole e gli stessi frutteti.

L’inerbimento favorisce l’assorbimento sia del potassio che del fosforo. I microelementi vanno considerati con attenzione ricorrendo alla diagnostica fogliare per valutarne la necessità di apporti durante la fase produttiva.
I fabbisogni idrici del pesco variano a seconda di diversi fattori: terreno, piovosità, portinnesto, varietà, gestione del suolo, ecc.. E’ stato calcolato che un ettaro di pescheto in produzione consuma da 2500 a 4000 mc d’acqua pari a 250-400 mm di pioggia; considerando però che le piante utilizzano solo una parte dell’acqua che arriva loro per le precipitazioni o per l’irrigazione, l’apporto deve essere sensibilmente superiore.

La distribuzione del totale volume di adacquamento deve differenziarsi in funzione delle diverse situazioni: più frequente nei terreni sciolti che in quelli compatti; più concentrata in primavera-inizio estate per le varietà precoci; abbondante nella fase di fioritura, scarsa fino all’indurimento del nocciolo, più forte durante l’accrescimento del frutto, ancora limitata dopo la raccolta seppur continua, per favorire la differenziazione delle gemme e l’accumulo di sostanze di riserva.
L’inerbimento anche parziale del pescheto comporta

a necessità di abbondare con le concimazioni e l’irrigazione a causa della competizione nutrizionale ed idrica che può compromettere l’attività vegetativa e la quantità dei frutti. L’inerbimento migliora le caratteristiche di porosità e permeabilità del terreno, inoltre incrementa il contenuto di sostanza organica e l’attività biologica del terreno.

Nei pescheti condotti in coltura asciutta non è possibile l’inerbimento ed è necessario ricorrere alla lavorazione del suolo con la precauzione di eseguirla in modo molto superficiale, evitando l’esecuzione in periodi troppo umidi per non compattare e creare problemi di asfissia alle radici del pescheto.

Produzioni.

Per determinare il momento ottimale per eseguire la raccolta si può ricorrere all'uso di penetrometri, strumenti che consentono di determinare la resistenza alla penetrazione di puntali di superficie nota, anche se per il pesco si ricorre spesso ad altri parametri, tra cui il controllo della colorazione dell'epidermide, in particolare modo del colore di fondo.

La raccolta viene effettuata generalmente in più volte; sono escluse le percoche qualora si pratichi la raccolta meccanica. questa operazione può essere fatta ricorrendo ai sistemi tradizionali, cioè alle scale oppure ad appositi carri raccolta opportunamente attrezzati per l'utilizzazione dei pallets.
La produttività degli impianti peschicoli può variare notevolmente: risulta minore per le cultivar precoci mentre tende ad aumentare per quelle tardive; nelle cultivar più produttive può giungere fino a 400 q/ha.

Dalle aziende le pesche passano, normalmente, ai magazzini di lavorazione dove si provvede alla cernita, alla spazzolatura, e al confezionamento in imballaggi standardizzati e per le varietà intermedie o tardive alla conservazione.

La pesca oltre che essere consumata allo stato fresco in numerose preparazioni è largamente utilizzata nella produzione di marmellate, succhi e pesche sciroppate, pesche essiccate, mostarda e canditi, frutti al brandy, alcool.. In Italia l'industria conserviera di pesche occupa un posto di primo piano.

Avversità.

Avversità non parassitarie.
ono rappresentate dalle difficili condizioni climatiche, dalle alterazioni dovute a carenze o eccessi nutrizionali e idrici, da un errato uso di fitofarmaci o dagli inquinanti atmosferici. Le principali avversità meteoriche sono le basse temperature, la grandine, la neve, e il vento. I freddi precoci risultano dannosi in alberi di pesco abbondantemente e tardivamente concimati con azoto e/o oggetto di irrigazioni eccessive eseguite tardivamente e in tutti i casi in cui l'attività vegetativa delle piante sia protratta oltremisura nel tempo. I forti freddi invernali possono causare danni anche gravi. I freddi tardivi risultano particolarmente dannosi in prossimità della fioritura. La grandine è in grado di provocare gravi danni non solo alla produzione ma anche alla vegetazione. Il vento risulta molto dannoso durante la fioritura perché impedisce il volo dei pronubi, oltre che in prossimità della maturazione in quanto determina un distacco anticipato dei frutti.

Virosi, micoplasmosi e batteriosi.
L tecnica della micropropagazione ha reso possibile la commercializzazione di materiale esente da virosi.

Ciononostante nei pescheti adulti è possibile riscontrare ancora diverse virosi o micoplasmosi quali: accartocciamento clorotico, calico o mosaico giallo, nanismo, maculatura anulare, maculatura clorotica, mosaico, rosetta a mosaico, rosetta a foglie saliciformi, pesca verrucosa, butteratura del legno, giallume, rosetta, malattia X.

Le batteriosi che si possono riscontrare sul pesco sono rappresentate essenzialmente dal tumore radicale, dal cancro batterico e dalla maculatura batterica.

Micosi
Molte sono le crittogame parassite del pesco; tra le tante risultano più dannose la bolla, l'oidio, il corineo, la monilia, il cancro, il mal del piombo, il marciume del colletto.

Parassiti animali
Tra gli insetti ricordiamo: gli afidi (afide nero del pesco, afide bruno del pesco, afide farinoso del pesco, afide verde del pesco), le cocciniglie (cocciniglia a barchetta del pesco, parlatoria dei fruttiferi, cocciniglia bianca del pesco, cocciniglia di S. Josè), l'anarsia, la tignola orientale, la mosca della frutta; danni occasionali possono essere provocati dal taglia gemme dei fruttiferi, dal taglia gemme dorato, dallo scolitide dei fruttiferi e dallo xileboro dei fruttiferi.

Gli acari presenti sul pesco sono essenzialmente il ragno rosso, il ragnetto rosso, il ragnetto bruno dei fruttiferi.

I nematodi che attaccano il pesco sono molti e fra questi alcuni del genere Meloidogyne.

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