L’argomento dei vitigni autoctoni è disciplinato dalla Legge n. 82 del 20 febbraio 2006 ‘Disposizioni di attuazione della normativa comunitaria concernente l’organizzazione comune di mercato (OCM) del vino’ pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 13 marzo 2006 - Supplemento ordinario n. 59; a integrazione delle definizioni previste dall’articolo 1, paragrafi 2 e 3, e dall’allegato I del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, che stabilisce le definizioni dei prodotti nazionali. Dalla legge si evince che “È definito ‘vitigno autoctono italiano’ il vitigno la cui presenza è rilevata in aree geografiche delimitate del territorio nazionale”. E sono le Regioni (e le province autonome di Trento e di Bolzano) ad accertare la coltivazione di vitigni autoctoni italiani sul territorio di competenza.
A tale fine esse verificano la permanenza della coltivazione per un periodo di almeno cinquanta anni, la diffusione sul territorio, il nome, la descrizione ampelografica e le caratteristiche agronomiche dei vitigni. Le Regioni trasmettono la documentazione necessaria al ‘Comitato nazionale per la classificazione delle varietà di viti’, che la esamina e accerta la sua rispondenza alle prescrizioni, provvedendo poi alla iscrizione del vitigno nel Registro nazionale delle varietà di viti con l’indicazione ‘vitigno autoctono italiano’. A questo punto il vitigno viene iscritto con l’indicazione del nome storico tradizionale, di eventuali sinonimi, delle principali caratteristiche di colore dell’acino e della zona di coltivazione di riferimento. Tutte le regioni italiane, oggi, sono al lavoro per definire un elenco dei propri vitigni autoctoni. Quindi ancora non c’è nulla di definitivo. In Romagna, probabilmente, i vitigni autoctoni, saranno: Albana, Albana nera, Canina nera, Centesimino, Negrettino e Uva longanesi.
Albana.
Il vitigno ha come sinonimi: albanone o albana grossa e poi sempre albana, a grappolo fitto, a grappolo lungo, della forcella o forcella, a grappolo rado o gentile, di Bertinoro, di Forlì, di Romagna, del riminese o riminese. Ritenuti errati sono invece greco, greco di Ancona, biancame, albana d’Istria, bianchetto di Treviso, albanella di Romagna. L’albana è il vitigno romagnolo per eccellenza. La zona di coltivazione è quella collinare e ben delimitata: felicemente influenzata dal Mare Adriatico, dagli Appennini, dai fiumi di medio percorso, dalle buone e costanti precipitazioni, dai venti che spirano quasi ininterrotti. I terreni sono caratterizzati dalla prevalenza calcarea, arricchita da fossili marini e residui organici, con la migliore esposizione dei vigneti da est a sud, in grado di favorire l’azione del sole e garantire una piena ed ottimale maturazione delle uve. Il suolo classico dell’albana è il cosiddetto ‘spungone romagnolo’, che si allunga dalla zona storica di Bertinoro fino all’imolese, tutte aree collinari, ad altezze variabili tra 100 e 200 m/slm. I vari tentativi di coltivare l’albana al di fuori della Romagna sono sempre falliti miseramente.
È un vitigno molto antico, con origini talmente remote da rendere difficile la distinzione tra storia e leggenda. L’origine del nome sembra derivi dai Colli Albani, la provenienza dei legionari colonizzatori della Romagna o dal colore dell’uva chiara, da cui ‘albus’ (bianco per eccellenza) = albana. Il nome ‘albana’ compare ufficialmente per la prima volta, nel 1233, (Pier De’ Crescenzi, Ruralium Commodorium Libri Duodecim). L’albana è un vitigno a bacca bianca, ma con le caratteristiche di uno a bacca rossa, poiché ha una notevole ricchezza di tannini nei vinaccioli e nelle bucce ed esprime il suo maggior potenziale con particolari vinificazioni che prevedono il residuo zuccherino.
Albana nera.
Chiamata anche albana rossa, è un antico vitigno romagnolo, coltivato fin dal 1600, nelle campagne del ravennate e in particolare nella zona faentina, al confine con il bolognese. Dall’imolese e dal faentino, poi la coltivazione dell’albana nera si diffuse, non uniformemente, nella pianura romagnola. Già presente in un elenco di vitigni coltivati in provincia di Bologna del 1879, l’uva origina un vino rosso intenso, con sfumature granato e con schiuma persistente; il profumo ricorda molto gli odori della post-fermentazione; il sapore è asciutto, leggermente frizzante e piacevolmente ammandorlato. Un vino, dunque, che crea allegria, accompagna il pasto delle rustiche mense contadine, in particolare con gli insaccati di maiale e resiste discretamente uno o due anni. Negli ultimi decenni la coltivazione dell’albana rossa si è ridotta a pochi filari nella zona collinare di Faenza e Brisighella ed il consumo è a livello familiare ed amatoriale.
Canina o canèna.
È un vitigno tipico romagnolo coltivato principalmente a Russi, Bagnacavallo, Faenza, Cotignola, Lugo e Castel Bolognese. Nel secolo scorso è stato confuso con il canaiolo nero, della Toscana; in ogni caso, è spesso scambiato con il vitigno della Cagnina, in realtà è molto diverso. La canina è piuttosto rara, si trova ancora coltivata in pochi filari, per uso familiare, per gli amici e per la piccola vendita locale. Oggi non si vinifica più in purezza, è più facile trovarla utilizzata con altre uve rosse nostrane. Il vino Canina, in edizione moderna, ha sempre il colore rosso tenue del melograno, con un tono cerasuolo, il profumo è fruttato, con sentori di piccoli frutti e di terra bagnata; il sapore è simpaticamente aspro e spigoloso; talvolta amabile (il che la fa confondere con la Cagnina), debole di corpo e con un basso titolo alcolometrico 11-11.5%, già pronto da consumare in ottobre. È il vino servito con il ‘bel e cot’ nell’ambito della ‘Fira di sett dulur’ di Russi, verso la terza settimana di settembre di ogni anno. Si dice che fosse - nella zona di Cotignola - il vino amato particolarmente da Stefano Pelloni, detto il Passatore e dalla sua banda, consumato nei tradizionali boccali di terracotta. È un vino precoce, amato dai contadini, si potrebbe definire ‘novello’, da consumare nei mesi freddi, quando arrivano le castagne e la voglia di piatti a base di maiale, e da esaurire entro la primavera.
Centesimino.
Centesimino, o sauvignôn rosso, o anche savignon rosso, com’è chiamato nel faentino, è una varietà di uva coltivata in Romagna almeno dal secondo dopoguerra. Verso la metà degli anni ‘60 si arrivò perfino ad un tentativo di valorizzazione di questo vitigno, tanto che l’aggiunto-agronomo delle Opere Pie Raggruppate Paolo Visani, propose di imbottigliare parte del vino ottenuto e fece realizzare dalle Litografie Artistiche Faentine un’etichetta da apporre sulle bottiglie. Fonti scritte e passa parola consentirono di verificare che i numerosi vigneti messi a dimora tra gli anni ‘60 e ‘70 nella zona di Oriolo derivavano da impianti precedenti, a loro volta allestiti prendendo il materiale da un vigneto presente nel podere ‘Terbato’ di proprietà del signor Pietro Pianori, detto Centesimino. Dagli anni ‘60 ad oggi il vitigno è stato indicato con uva di centesimino, dal soprannome del viticoltore che per primo iniziò la coltivazione.
Negrettino.
Sinonimi: neretto, negretto, maiolo. Vitigno coltivato nella provincia di Bologna e già menzionato dal De’ Crescenzi nel 1495. Le notizie storiche, del vitigno, sono incerte e contraddittorie. È, in ogni modo, un antichissimo vitigno romagnolo a bacca rossa, che nei secoli è stato scambiato con altre uve rosse similari. Dal negrettino si ottiene un vino dolce, molto amato e beverino, considerato terapeutico poiché garantiva una proverbiale facile digestione. In Romagna, con il negrettino vinificato in purezza, si ottiene un vino semplice, con caratteristiche ben precise: colore rosso amaranto intenso con toni violacei; profumo fresco e vinoso, con sentori di piccoli frutti rossi come il lampone e l’amarena; gusto amabile, vivace, fruttato, leggermente tannico e piacevolmente acidulo, debole di corpo e leggero d’alcol (10% o poco più). Era vino pronto in poche settimane, da bere entro pochi mesi, poiché, per la sua delicatezza, non reggeva il tempo e si sposava bene con le crostate di frutta rossa, i dolci casalinghi, i tortelli con la saba, le frittelle dolci, i dolci tradizionali fatti con la farina di castagne. Oggi è un’uva poco coltivata, in alcune zone del forlivese e del faentino, per l’uso familiare e di pochi, ma fortunati, appassionati.
Uva Longanesi.
La produzione di questo vitigno, detto anche Bursôn, dal soprannome della famiglia che lo ha salvato, si estende su una superficie di 200 ettari e trova le condizioni ottimali nella pianura ravennate e nelle colline faentine. L’uva longanesi potrebbe essere uno di quei vecchi vitigni, salvato per la resistenza dei grappoli alla marcescenza e per la rusticità della pianta. Proprio per queste sue caratteristiche qualche ceppo era piantato nei ‘roccoli’, aree boschive al limite dei fondi rustici, dove si praticava la caccia dal capanno agli uccelli di passo, perché la presenza di uva matura sulle piante fino a tutto novembre serviva da richiamo. Ed è proprio abbarbicata ad una quercia del ‘roccolo’ che Aldo Longanesi la trovò, quando intorno agli anni venti prese possesso del suo fondo di Via Boncellino a Bagnacavallo. La sua sopravvivenza nel tempo si deve ad Antonio Longanesi, il quale negli anni ‘50 lo trovò nel suo podere. Fece alcuni innesti e attese la prima uva. Con stupore il risultato si rivelò un grande successo. L’uva longanesi, secondo esami di laboratorio, ha un Dna completamente diverso da quello di altri vitigni italiani a bacca rossa. Qualcuno lo chiama un po’ scherzosamente ‘amarene della pianura’, in ogni modo, ha un sapore davvero esuberante e caldo, con tannini solo leggermente amarognoli. Il Consorzio di Bagnacavallo, fondato nel 1999, con l’obiettivo di valorizzare e salvaguardare i tanti prodotti tipici della zona, associa 14 produttori e 24 viticoltori, vincolati al rispetto di un regolamento interno che è aggiornato periodicamente ed ha brevettato il Bursôn. Il risultato è un vino nato piuttosto ricco di antociani e polifenoli, ma che nella crescita ha progressivamente ammorbidito le sue caratteristiche
A tale fine esse verificano la permanenza della coltivazione per un periodo di almeno cinquanta anni, la diffusione sul territorio, il nome, la descrizione ampelografica e le caratteristiche agronomiche dei vitigni. Le Regioni trasmettono la documentazione necessaria al ‘Comitato nazionale per la classificazione delle varietà di viti’, che la esamina e accerta la sua rispondenza alle prescrizioni, provvedendo poi alla iscrizione del vitigno nel Registro nazionale delle varietà di viti con l’indicazione ‘vitigno autoctono italiano’. A questo punto il vitigno viene iscritto con l’indicazione del nome storico tradizionale, di eventuali sinonimi, delle principali caratteristiche di colore dell’acino e della zona di coltivazione di riferimento. Tutte le regioni italiane, oggi, sono al lavoro per definire un elenco dei propri vitigni autoctoni. Quindi ancora non c’è nulla di definitivo. In Romagna, probabilmente, i vitigni autoctoni, saranno: Albana, Albana nera, Canina nera, Centesimino, Negrettino e Uva longanesi.
Albana.
Il vitigno ha come sinonimi: albanone o albana grossa e poi sempre albana, a grappolo fitto, a grappolo lungo, della forcella o forcella, a grappolo rado o gentile, di Bertinoro, di Forlì, di Romagna, del riminese o riminese. Ritenuti errati sono invece greco, greco di Ancona, biancame, albana d’Istria, bianchetto di Treviso, albanella di Romagna. L’albana è il vitigno romagnolo per eccellenza. La zona di coltivazione è quella collinare e ben delimitata: felicemente influenzata dal Mare Adriatico, dagli Appennini, dai fiumi di medio percorso, dalle buone e costanti precipitazioni, dai venti che spirano quasi ininterrotti. I terreni sono caratterizzati dalla prevalenza calcarea, arricchita da fossili marini e residui organici, con la migliore esposizione dei vigneti da est a sud, in grado di favorire l’azione del sole e garantire una piena ed ottimale maturazione delle uve. Il suolo classico dell’albana è il cosiddetto ‘spungone romagnolo’, che si allunga dalla zona storica di Bertinoro fino all’imolese, tutte aree collinari, ad altezze variabili tra 100 e 200 m/slm. I vari tentativi di coltivare l’albana al di fuori della Romagna sono sempre falliti miseramente.
È un vitigno molto antico, con origini talmente remote da rendere difficile la distinzione tra storia e leggenda. L’origine del nome sembra derivi dai Colli Albani, la provenienza dei legionari colonizzatori della Romagna o dal colore dell’uva chiara, da cui ‘albus’ (bianco per eccellenza) = albana. Il nome ‘albana’ compare ufficialmente per la prima volta, nel 1233, (Pier De’ Crescenzi, Ruralium Commodorium Libri Duodecim). L’albana è un vitigno a bacca bianca, ma con le caratteristiche di uno a bacca rossa, poiché ha una notevole ricchezza di tannini nei vinaccioli e nelle bucce ed esprime il suo maggior potenziale con particolari vinificazioni che prevedono il residuo zuccherino.
Albana nera.
Chiamata anche albana rossa, è un antico vitigno romagnolo, coltivato fin dal 1600, nelle campagne del ravennate e in particolare nella zona faentina, al confine con il bolognese. Dall’imolese e dal faentino, poi la coltivazione dell’albana nera si diffuse, non uniformemente, nella pianura romagnola. Già presente in un elenco di vitigni coltivati in provincia di Bologna del 1879, l’uva origina un vino rosso intenso, con sfumature granato e con schiuma persistente; il profumo ricorda molto gli odori della post-fermentazione; il sapore è asciutto, leggermente frizzante e piacevolmente ammandorlato. Un vino, dunque, che crea allegria, accompagna il pasto delle rustiche mense contadine, in particolare con gli insaccati di maiale e resiste discretamente uno o due anni. Negli ultimi decenni la coltivazione dell’albana rossa si è ridotta a pochi filari nella zona collinare di Faenza e Brisighella ed il consumo è a livello familiare ed amatoriale.
Canina o canèna.
È un vitigno tipico romagnolo coltivato principalmente a Russi, Bagnacavallo, Faenza, Cotignola, Lugo e Castel Bolognese. Nel secolo scorso è stato confuso con il canaiolo nero, della Toscana; in ogni caso, è spesso scambiato con il vitigno della Cagnina, in realtà è molto diverso. La canina è piuttosto rara, si trova ancora coltivata in pochi filari, per uso familiare, per gli amici e per la piccola vendita locale. Oggi non si vinifica più in purezza, è più facile trovarla utilizzata con altre uve rosse nostrane. Il vino Canina, in edizione moderna, ha sempre il colore rosso tenue del melograno, con un tono cerasuolo, il profumo è fruttato, con sentori di piccoli frutti e di terra bagnata; il sapore è simpaticamente aspro e spigoloso; talvolta amabile (il che la fa confondere con la Cagnina), debole di corpo e con un basso titolo alcolometrico 11-11.5%, già pronto da consumare in ottobre. È il vino servito con il ‘bel e cot’ nell’ambito della ‘Fira di sett dulur’ di Russi, verso la terza settimana di settembre di ogni anno. Si dice che fosse - nella zona di Cotignola - il vino amato particolarmente da Stefano Pelloni, detto il Passatore e dalla sua banda, consumato nei tradizionali boccali di terracotta. È un vino precoce, amato dai contadini, si potrebbe definire ‘novello’, da consumare nei mesi freddi, quando arrivano le castagne e la voglia di piatti a base di maiale, e da esaurire entro la primavera.
Centesimino.
Centesimino, o sauvignôn rosso, o anche savignon rosso, com’è chiamato nel faentino, è una varietà di uva coltivata in Romagna almeno dal secondo dopoguerra. Verso la metà degli anni ‘60 si arrivò perfino ad un tentativo di valorizzazione di questo vitigno, tanto che l’aggiunto-agronomo delle Opere Pie Raggruppate Paolo Visani, propose di imbottigliare parte del vino ottenuto e fece realizzare dalle Litografie Artistiche Faentine un’etichetta da apporre sulle bottiglie. Fonti scritte e passa parola consentirono di verificare che i numerosi vigneti messi a dimora tra gli anni ‘60 e ‘70 nella zona di Oriolo derivavano da impianti precedenti, a loro volta allestiti prendendo il materiale da un vigneto presente nel podere ‘Terbato’ di proprietà del signor Pietro Pianori, detto Centesimino. Dagli anni ‘60 ad oggi il vitigno è stato indicato con uva di centesimino, dal soprannome del viticoltore che per primo iniziò la coltivazione.
Negrettino.
Sinonimi: neretto, negretto, maiolo. Vitigno coltivato nella provincia di Bologna e già menzionato dal De’ Crescenzi nel 1495. Le notizie storiche, del vitigno, sono incerte e contraddittorie. È, in ogni modo, un antichissimo vitigno romagnolo a bacca rossa, che nei secoli è stato scambiato con altre uve rosse similari. Dal negrettino si ottiene un vino dolce, molto amato e beverino, considerato terapeutico poiché garantiva una proverbiale facile digestione. In Romagna, con il negrettino vinificato in purezza, si ottiene un vino semplice, con caratteristiche ben precise: colore rosso amaranto intenso con toni violacei; profumo fresco e vinoso, con sentori di piccoli frutti rossi come il lampone e l’amarena; gusto amabile, vivace, fruttato, leggermente tannico e piacevolmente acidulo, debole di corpo e leggero d’alcol (10% o poco più). Era vino pronto in poche settimane, da bere entro pochi mesi, poiché, per la sua delicatezza, non reggeva il tempo e si sposava bene con le crostate di frutta rossa, i dolci casalinghi, i tortelli con la saba, le frittelle dolci, i dolci tradizionali fatti con la farina di castagne. Oggi è un’uva poco coltivata, in alcune zone del forlivese e del faentino, per l’uso familiare e di pochi, ma fortunati, appassionati.
Uva Longanesi.
La produzione di questo vitigno, detto anche Bursôn, dal soprannome della famiglia che lo ha salvato, si estende su una superficie di 200 ettari e trova le condizioni ottimali nella pianura ravennate e nelle colline faentine. L’uva longanesi potrebbe essere uno di quei vecchi vitigni, salvato per la resistenza dei grappoli alla marcescenza e per la rusticità della pianta. Proprio per queste sue caratteristiche qualche ceppo era piantato nei ‘roccoli’, aree boschive al limite dei fondi rustici, dove si praticava la caccia dal capanno agli uccelli di passo, perché la presenza di uva matura sulle piante fino a tutto novembre serviva da richiamo. Ed è proprio abbarbicata ad una quercia del ‘roccolo’ che Aldo Longanesi la trovò, quando intorno agli anni venti prese possesso del suo fondo di Via Boncellino a Bagnacavallo. La sua sopravvivenza nel tempo si deve ad Antonio Longanesi, il quale negli anni ‘50 lo trovò nel suo podere. Fece alcuni innesti e attese la prima uva. Con stupore il risultato si rivelò un grande successo. L’uva longanesi, secondo esami di laboratorio, ha un Dna completamente diverso da quello di altri vitigni italiani a bacca rossa. Qualcuno lo chiama un po’ scherzosamente ‘amarene della pianura’, in ogni modo, ha un sapore davvero esuberante e caldo, con tannini solo leggermente amarognoli. Il Consorzio di Bagnacavallo, fondato nel 1999, con l’obiettivo di valorizzare e salvaguardare i tanti prodotti tipici della zona, associa 14 produttori e 24 viticoltori, vincolati al rispetto di un regolamento interno che è aggiornato periodicamente ed ha brevettato il Bursôn. Il risultato è un vino nato piuttosto ricco di antociani e polifenoli, ma che nella crescita ha progressivamente ammorbidito le sue caratteristiche
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